Umanità cercasi. Contro le tecnologie salvifiche e la disumanizzazione del settore pubblico

C’è un dibattito vivo – persino acceso – in America e in molti Paesi sul mito della “salvezza tecnologica”. Un dibattito che in Italia semplicemente non c’è.
Ne ha scritto in modo lucido Nicoletta Boldrini, riflettendo sul libro di Adam Becker More Everything Forever, dove si smontano le narrative “messianiche” di chi nella Silicon Valley investe miliardi per realizzare sogni di immortalità digitale, colonizzazione interplanetaria, crescita infinita. La promessa? Redimere l’umanità dai suoi limiti, risolvere ogni problema, cancellare morte, malattia, ignoranza, perfino il clima ostile di Marte. Sempre che tu possa permettertelo, ovviamente.
Becker chiama tutto questo «ideologia della salvezza tecnologica»: un’utopia secolare, con i suoi sacerdoti, i suoi dogmi e le sue indulgenze plenarie per la concentrazione di ricchezza e potere.
L’innovazione come dogma
Perché questo tema ci riguarda? Perché la stessa ideologia – meno chiassosa, meno siliconvalleggiante, ma non meno pericolosa – si è radicata anche nella narrazione che domina la pubblica amministrazione italiana.
Chi lavora nella formazione, nella consulenza, nella pianificazione strategica per il settore pubblico lo vede tutti i giorni: la soluzione magica, la scorciatoia risolutiva, il “Piano” con la maiuscola, la “Piattaforma” che risolve tutto, la “Dashboard” che monitora tutto.
E soprattutto la formazione “innovativa” che promette di redimere la PA dai suoi peccati di burocrazia, opacità, inefficienza, senza mai chiedere nulla di vero e faticoso ai suoi protagonisti.
Ci sono corsi di formazione dove la “trasformazione digitale” è ridotta a slide sui servizi online. Dove la parola “competenza” è declinata in modo talmente vago da diventare un meme. Dove la “semplificazione” non è altro che smantellamento di controlli in nome del risultato. Dove la “fiducia” è brandita come uno scudo per respingere qualsiasi forma di accountability.
Sembra di sentire un’eco italiana della “ideologia della salvezza tecnologica”: basta innovare (in un modo qualunque) per essere buoni, per non dover più rispondere delle proprie decisioni. Basta adottare il “principio del risultato” e la fiducia reciproca, e tutti i problemi di imparzialità, conflitti di interessi, corruzione, semplicemente svaniscono.
Il risultato come religione di Stato
Non è un caso che il nuovo Codice dei contratti pubblici abbia sancito il “principio del risultato” come nuova religione di Stato: “fare” diventa l’imperativo etico, e poco importa come, per chi, con quali garanzie di imparzialità e trasparenza.
Se protesti, ti rispondono che non capisci l’urgenza, che vuoi rallentare il cambiamento, che sei un burocrate, un conservatore. L’unico vero peccato è la lentezza. La complessità è il Male.
Come se il problema della pubblica amministrazione italiana fosse un eccesso di pensiero critico. Come se il vero nemico non fosse la gestione opaca, le relazioni improprie, le distorsioni di potere, ma l’ultima nota a piè di pagina sul Piano Anticorruzione.
L’illusione dell’algoritmo neutrale
C’è un altro parallelo inquietante. Becker denuncia l’aspettativa che l’Intelligenza Artificiale risolva tutto – e sostituisca persino la saggezza umana. Un’aspettativa religiosa, che promette di liberarci dal peso di scegliere, di giudicare, di decidere.
Anche la nostra PA si sta lanciando sull’IA – ma quasi sempre senza chiedersi che cosa significa delegare a un algoritmo scelte che hanno un impatto su diritti, doveri, opportunità di persone vere. Senza nemmeno definire criteri di valutazione etica, di accountability, di controllo.
Come se la macchina fosse, di per sé, giusta e neutrale.
Come se il software potesse sostituire il lavoro di comprensione, valutazione, relazione, che sono l’essenza di una funzione pubblica degna di questo nome.
L’adempimento che cancella il senso
Ma la versione italiana dell’ideologia della salvezza tecnologica non è fatta solo di sogni messianici e IA. È fatta di moduli da compilare, di piattaforme da popolare, di check-list da spuntare.
Il rischio più concreto è quello che abbiamo spesso denunciato: fare tutto senza capire niente. Applicare regole senza comprenderne la ragione. Adempiere senza discernere.
Perché è più facile misurare l’adempimento che valutare l’integrità. È più semplice contare ore di formazione che trasformare le persone che frequentano i corsi. È più comodo scrivere un Piano che costruire una cultura.
Rimettere al centro la persona
L’ossessione tecnologica (anche nella PA) ha una matrice disumanizzante. Sposta il problema sulle macchine, sugli strumenti, sui sistemi, sui piani. Toglie di mezzo la fatica del dialogo, della comprensione reciproca, del riconoscimento dei conflitti.
E soprattutto scaccia la persona dal centro del sistema.
Ma l’interesse pubblico non è un algoritmo, non è un output. È la scelta continua di dare priorità a bisogni collettivi e diritti individuali, di negoziare soluzioni giuste, di prevenire abusi e ingiustizie. È un processo umano.
La prevenzione della corruzione, ad esempio, è proprio questo: riconoscere i rischi (relazionali, cognitivi, informativi) e gestirli con strumenti che non sostituiscano la coscienza umana, ma la rafforzino.
Quale futuro vogliamo per la PA?
Non possiamo lasciare che siano le tecnologie a prometterci la salvezza.
Non possiamo accontentarci di “funzionare”.
Il futuro della pubblica amministrazione non si misura solo in risultati o prestazioni.
Si misura in quanti diritti sapremo ancora difendere e far crescere al suo interno.