IL MODELLO PESARO. Bene comune o cooptazione relazionale?

Non ci sono tangenti. Nessuna mazzetta, nessun pizzino. Ci sono invece cooperative sociali, lavori pubblici, determine, e un potere politico che ha smesso di porsi limiti.

Il Sindaco uscente di Pesaro e volto noto del Partito Democratico, è indagato per turbativa d’asta e falso ideologico. Secondo la Procura, avrebbe indirizzato l’affidamento di lavori pubblici a un sistema ristretto di cooperative sociali. Si parla di decine di appalti, affidati senza bando o con gare scritte “su misura”, per un valore complessivo superiore ai due milioni di euro.

L’inchiesta, denominata “Casco Rosso”, ha portato a diverse perquisizioni e coinvolge anche dirigenti e funzionari del Comune. Sullo sfondo, una certa idea di governo del territorio, fondata più sulla familiarità relazionale che sulla competizione aperta.

1. Il “modello Pesaro”: tra ideologia e cortocircuito

Il Sindaco rivendica il suo operato con orgoglio: “Abbiamo dato lavoro a 200 persone svantaggiate, abbiamo rigenerato quartieri, abbiamo fatto del bene”. È la narrativa dell’inclusione come obiettivo politico. Ma il punto – come sempre – non è il fine, è il mezzo.

La Procura contesta l’abuso strutturato della norma (art. 112 D.Lgs. 50/2016) che consente alle pubbliche amministrazioni di affidare direttamente alle cooperative sociali di tipo B lavori “sotto soglia”, per favorire l’inserimento lavorativo. Non un’eccezione, ma una sistematicità: appalti affidati con la stessa motivazione, agli stessi soggetti, con documenti copiati-incollati.

Il risultato? Un sistema chiuso, autoreferenziale, e opaco, che si sottrae alla concorrenza e si legittima attraverso il racconto di una bontà che non ammette repliche.

2. Falso ideologico e determine “preconfezionate”

Secondo gli inquirenti, le determine dirigenziali sarebbero state redatte su impulso politico, e avrebbero certificato requisiti (come la percentuale di lavoratori svantaggiati impiegati) senza alcun controllo effettivo. Anzi, in alcuni casi, alterando la realtà per giustificare l’affidamento.

Il Sindaco avrebbe “detto a chi affidare cosa”, creando di fatto un sistema di preferenze politiche più che un’azione amministrativa ispirata alla legalità. Le cooperative, dal canto loro, sarebbero state ben liete di adattarsi a questo schema, in cambio di stabilità e continuità economica.

Il nodo, quindi, non è l’illiceità spudorata (che con ogni probabilità non verrà mai dimostrata in giudizio), ma l’erosione delle garanzie sistemiche: quando il potere decide chi “merita”, e chi no, l’amministrazione diventa funzione accessoria della volontà politica.

3. Il punto di vista dell’accusato: “Un’inchiesta sul bene comune”

Il Sindaco si è detto “tranquillo e sereno” (intervista su AnconaToday) e ha definito l’inchiesta un processo politico a un’idea di città. Secondo lui, gli appalti sotto soglia sono pienamente legittimi, la scelta delle cooperative è basata su criteri trasparenti, e il modello adottato è sostenuto da anni di delibere approvate dal Consiglio comunale.

In un’intervista a Open, il Sindaco denuncia una “criminalizzazione dell’amministrazione del bene” e si dice fiducioso: “Spiegherò tutto alla Procura, non ho nulla da temere. Rifarei tutto”. Per lui, insomma, si tratta di un attacco ideologico a un modo “diverso” di amministrare, più attento al sociale, meno vincolato dalle logiche di mercato.

Ma è proprio questo il punto debole della sua difesa: non basta essere convinti della bontà del proprio operato, se si gestisce un potere pubblico. L’azione di governo, anche quando ispirata da valori nobili, va sempre regolata, verificata, documentata.

4. Il caso Milano e l’altro volto della sottrazione

In questa vicenda, le analogie con il caso Milano sono sorprendenti, anche se in apparenza molto diverse. A Milano, si parla di edilizia privata, di Sportello Unico e di semplificazione amministrativa; a Pesaro, di lavori pubblici e cooperazione sociale.

Ma il meccanismo è lo stesso: il potere pubblico si sottrae, si ritira, abdica. A Milano, lo fa semplificando, usando la SCIA come strumento per velocizzare, ridurre controlli, minimizzare le interferenze. A Pesaro, lo fa affermando che il bene è già noto, e quindi non ha senso metterlo in discussione.

In entrambi i casi, il risultato è la stessa fragilità sistemica: il pubblico non governa più gli interessi in campo, ma si fa garante di una parte. Rinuncia alla sua funzione essenziale.

5. A che serve il settore pubblico?

Questa è la domanda chiave, che attraversa tanto il caso Pesaro quanto quello milanese.
A che serve il settore pubblico?

Non serve a “fare il bene”. Serve a rappresentare tutti, a contemperare interessi plurali, spesso confliggenti, attraverso regole, processi, trasparenza, controllo. Se l’attore pubblico perde questa funzione – se diventa parziale, orientato, fedele a una rete – allora non ha più senso esistere. E con esso perde senso l’idea stessa di democrazia, che pretende che tutte le voci – dicasi interessi – siano ascoltate, pesate, bilanciate.

La questione, dunque, non è (solo) etica.
È una questione di funzionamento del settore pubblico e della democrazia stessa.

Il caso non è ancora giudicato, e non spetta a noi stabilire colpe. Ma ciò che possiamo – e dobbiamo – vedere chiaramente è il rischio di un potere che, anche in nome del bene, si sottrae al diritto.