Gli indicatori OCSE sull’integrità pubblica: la cartina di tornasole dell’utopia burocratica?

Il miraggio della misurazione perfetta

Immaginate di avere un termometro che non misura la temperatura, ma l’integrità. Una sorta di strumento magico, infallibile, che ci permette di sapere con assoluta precisione se un’amministrazione pubblica è etica, trasparente e immune da interessi particolari. Sembra un’idea geniale, vero? Eppure, noi di Spazioetico sappiamo che la realtà amministrativa è molto meno misurabile di quanto si voglia credere. E che, quando si costruiscono indicatori per l’integrità, il rischio di scambiare la forma per la sostanza è dietro l’angolo.

L’OECD Public Integrity Indicators è un ambizioso tentativo di fornire una misurazione standardizzata della capacità dei governi di promuovere l’integrità pubblica. Indicatori, punteggi, benchmark: tutto perfettamente in linea con il culto della evidence-based policy che, a parole, dovrebbe salvarci dalla doxa e dalla politicizzazione della lotta alla corruzione. Ma funziona davvero?

Il grande equivoco: strumenti e fenomeni

Abbiamo già visto molte volte questa dinamica: indicatori raffinati, database sterminati, metriche scientificamente fondate… e poi? Poi succede che ci troviamo di fronte a un’amministrazione modello (sulla carta) che riesce a ottenere punteggi perfetti sugli indicatori OCSE, ma che in realtà è un sistema opaco, prono agli interessi di lobby e gruppi di potere. Sì, perché misurare l’integrità pubblica con un set di indicatori rischia di essere un’operazione più estetica che sostanziale. E i numeri possono diventare, per chi governa, un comodo paravento dietro cui nascondere l’assenza di cambiamenti reali.

Il rischio? Quello di trattare la prevenzione della corruzione come un processo puramente burocratico, fatto di adempimenti, compliance e strategie di gestione del rischio, senza mai porsi il problema se le persone dentro il sistema abbiano davvero strumenti, competenze e autonomia per riconoscere e contrastare la corruzione.

Tre (false) certezze sugli indicatori di integrità

1. Se un fenomeno è misurabile, allora è gestibile

L’OCSE parte da un assunto problematico: l’idea che esistano metriche affidabili per qualcosa di tanto complesso e situazionale come l’integrità pubblica. Ma l’integrità non è il PIL, né il tasso di disoccupazione: non è un dato quantitativo facilmente rilevabile, bensì il risultato di dinamiche relazionali e contestuali che variano da amministrazione ad amministrazione.

2. Se un sistema ha regole e procedure anticorruzione, allora è integro

Uno degli aspetti più problematici della misurazione dell’integrità è la tendenza a confondere l’esistenza di strumenti formali con l’efficacia degli strumenti stessi. Il fatto che un governo abbia adottato un sistema di prevenzione del conflitto di interessi o di protezione dei whistleblower non significa automaticamente che questi strumenti funzionino o vengano usati.

In Italia, per esempio, abbiamo Piani Triennali Anticorruzione, sistemi di segnalazione e RPCT con poteri di analisi e gestione del rischio. Eppure, in molte amministrazioni locali il conflitto di interessi rimane invisibile, mentre i whistleblower temono più le ritorsioni che i corrotti.

3. Se un’amministrazione ottiene un punteggio alto, allora i cittadini si fidano di essa

Una delle metriche più ambigue degli indicatori OCSE è il Public Trust Index, ovvero la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Ma siamo sicuri che questa sia una misura affidabile dell’integrità pubblica? La fiducia è un fenomeno molto più volatile e legato a fattori culturali, politici e mediatici. Esistono paesi in cui la popolazione si fida delle istituzioni non perché siano trasparenti, ma perché il potere è stato abilmente legittimato da una narrazione efficace.

Il paradosso del “sistema perfetto”

Il rischio di affidarsi ciecamente agli indicatori OCSE è quello di creare sistemi perfetti sulla carta, ma privi di capacità reale di autoriforma. L’Italia, ad esempio, ha sviluppato negli ultimi dieci anni una macchina perfetta di prevenzione, fatta di obblighi di trasparenza, anticorruzione, valutazione del rischio e accountability. Eppure, il sistema si inceppa continuamente perché manca l’elemento più importante: il riconoscimento dei dilemmi etici e l’autonomia decisionale degli operatori pubblici.

Nel nostro lavoro di formazione, abbiamo visto che il problema non è tanto la mancanza di regole, quanto la difficoltà delle persone nel decodificare i rischi e prendere decisioni in scenari complessi. Un sistema pubblico che si affida solo agli indicatori finisce per premiare chi è bravo a compilare moduli, non chi è in grado di risolvere i problemi.

Conclusione: più cultura, meno Excel

Non fraintendeteci: gli indicatori di integrità pubblica sono strumenti utili, ma devono essere usati con consapevolezza. Devono servire a stimolare il dibattito e a evidenziare tendenze, non a trasformarsi in un esercizio autocelebrativo.

La vera sfida dell’integrità pubblica non è quella di migliorare i punteggi OCSE, ma di creare un ambiente in cui i dipendenti pubblici non abbiano paura di riconoscere e segnalare le anomalie, in cui la trasparenza sia un valore reale e non solo un obbligo formale, e in cui il cittadino possa esercitare un controllo effettivo sulle scelte dell’amministrazione.

Se davvero vogliamo che gli indicatori OCSE siano utili, dobbiamo evitare che diventino il termometro del nulla, buono solo a giustificare politiche vuote di contenuti. Più che inseguire classifiche e punteggi, dovremmo preoccuparci di costruire una grammatica dell’integrità, capace di rendere le pubbliche amministrazioni più consapevoli, più resilienti e, soprattutto, più credibili.