LE ROI S’AMUSE. Comportamento in servizio e nei rapporti privati

Questo articolo è apparso sulla Rivista Azienditalia Enti Locali, Mensile per gli enti locali e le loro aziende, nel 2022, nell’ambito della rubrica mensile: lo Spazio Etico, Viaggio nel mondo dei codici di comportamento della PA: istruzioni per l’uso.

“Se il Re si diverte o no pochi lo sanno e non è necessario che si sappia; ad ogni modo, come uomo non può ballare, se non alla presenza dei suoi Ministri responsabili e delle loro irresponsabili mogli, o come Re, non solo non governa ma non regna neppure, salvo che per regnare s’intenda constatare il risultamento della più semplice delle operazioni dell’aritmetica”. Nicola Santamaria, Atlantide, 1881

Una lunga estate calda

Introduzione. In questo numero parleremo delle regole di comportamento in servizio e nei rapporti privati, definite negli artt. 10 e 11 del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (DPR n. 62/2013). E’ un argomento, a nostro parere, molto interessante, perché ha a che fare sul modo in cui deve essere valutata la qualità dei dipendenti pubblici, ma anche dei rappresentanti politici. Cos’è più rilevante: come scelgono e agiscono nell’esercizio della loro funzione, oppure come agiscono nella loro sfera privata? E’ più importante che siano degni del ruolo pubblico ad essi affidato, oppure che usino degnamente tale ruolo?

Qualcuno dei nostri affezionati lettori, scorrendo questo articolo, forse percepirà un lieve profumo di crema solare o di barbecue. Ci scusiamo fin d’ora per questi refusi olfattivi, ma lo abbiamo scritto durante il mese di agosto e qualche brandello di quella lunga estate calda, inevitabilmente, ci è rimasto tra le righe.

Un’estate davvero memorabile, quella del 2022, anche se non in senso del tutto positivo: i cambiamenti climatici e politici sono ormai tangibili e hanno fatto cadere ghiacciai e governi; l’acqua è stata rubata dalla siccità, il gas dalla guerra; ed è ormai certo che nulla dura in eterno, nemmeno la Regina d’Inghilterra!

Abbiamo sbirciato, per settimane, l’elenco degli articoli ancora da scrivere. Aiutati dalle nostre solide competenze matematiche, abbiamo dedotto che, dopo aver superato in scioltezza l’art. 9 del Codice di comportamento nazionale e aver parlato di trasparenza, ora avremmo dovuto affrontare il 10 e poi l’11: due articoli di portata molto generale e dedicati, rispettivamente, al comportamento nei rapporti privati e al comportamento in servizio, e che contengono regole semplici, nonché di quasi immediata comprensione.

È ben noto che gli esperti, gli studiosi e i formatori sono indispensabili per affrontare argomenti difficili e oscuri, ma diventano pressoché inutili, quando le cose sono semplici e comprensibili a tutti. È successo anche a noi: siamo stati colti dal temutissimo blocco dello scrittore!

Eravamo già sul punto di inviare una e-mail alla redazione di Azienditalia, per cospargerci il capo di cenere e per annunciare che il nuovo articolo non sarebbe mai arrivato; quand’ecco che, salvifica come un faro nella nebbia, la premier finlandese Sanna Marin è giunta a illuminare i nostri cervelli ottenebrati!

La vicenda è nota a tutti, perché ha animato anche le pagine dei giornali nostrani, altrimenti condannati al monotono stillicidio della campagna elettorale. Ed è una vicenda che ha riacceso il dibattito sul voyeurismo di una certa opinione pubblica, sugli stereotipi della cultura patriarcale, che non perdona ad una giovane premier donna quello che invece è concesso ad attempati politici maschi; e persino sull’operato dei servizi segreti russi! A noi, invece, è sembrato un ottimo spunto da cui partire, per cominciare a ragionare sugli standard di comportamento che sono richiesti a chi esercita una funzione pubblica.

Sanna Marin si è difesa, rivendicando il diritto alla privacy e chiedendo di essere giudicata esclusivamente per la propria attività politica: “Voglio fidarmi e credere che le persone guarderanno a ciò che facciamo al lavoro, piuttosto che a ciò che facciamo nel nostro tempo libero. Sono umana ed anche io a volte desidero gioia, luce e divertimento in mezzo a queste nuvole oscure. E questo riguarda tutti i tipi di immagini e video che non vorrei vedere, che so che non vorreste vedere, e che tuttavia vengono mostrati a tutti noi. E’ privato, è gioia ed è vita. Ma non ho perso un solo giorno di lavoro. Non ho lasciato un solo compito ancora da svolgere. E non lo farò nemmeno in mezzo a tutto questo, perché passerà”[1].

Il ragionamento della premier finlandese era a nostro parere assolutamente condivisibile e rifletteva una caratura morale e una profondità umana che, forse, mancano a certi politici nostrani: lei non se l’è presa con le opposizioni, non ha minacciato querele ai giornalisti, ma ha rivendicato con forza la qualità del proprio agire pubblico, che non può essere giudicato con il metro della vita privata. Tuttavia, abbiamo deciso di valutare le affermazioni della premier finlandese in modo meno soggettivo, cioè alla luce degli art. 10 e 11 del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici italiani: un esperimento incerto (l’etica pubblica italiana potrà mai essere rilevante per una esponente della classe politica finlandese?) ma che ha condotto a risultati interessanti!

LE DUE FACCE DI GIANO

I Principi. L’art. 10 e l’art. 11 del codice di comportamento sono ispirati a principi che si oppongono l’uno all’altro. Ma l’etica pubblica non è una bussola, che indica in ogni momento il comportamento giusto da adottare; è piuttosto una bilancia che tiene in equilibrio principi ed aspettative molto diverse tra loro.

Buon andamento, efficacia, efficienza, correttezza e buona fede

“Fermo restando il rispetto dei termini del procedimento amministrativo, il dipendente, salvo giustificato motivo, non ritarda né adotta comportamenti tali da far ricadere su altri dipendenti il compimento di attività o l’adozione di decisioni di propria spettanza”: il comma 1 dell”art.11[2] del Codice di comportamento sembra dare ragione a Sanna Marin. La qualità di un dipendente pubblico si misura in relazione alla sua capacità di portare a termine i compiti che gli sono stati assegnati, senza accumulare ritardi o scaricare sugli altri le proprie responsabilità. Questa regola non ci dice nulla sul comportamento del dipendente pubblico nella sua vita privata e si fonda sui principi di buon andamento, efficacia, efficienza correttezza e buona fede: si tratta, come abbiamo visto in un articolo precedente[3], di una regola “FIT”, che rende una Pubblica Amministrazione adeguata ai propri scopi, adottando il punto di vista dei singoli Destinatari. Anche se il Codice di comportamento non si applica ai componenti degli organi di indirizzo politico, l’ingiunzione del comma 1 dell’art. 11 ha una portata talmente generale, da poter essere assunta come metro di valutazione dell’agire politico: la premier Sanna Marin è libera di lanciarsi in balli scatenati, durante party notturni in cui le influencer si fanno i selfie a seno nudo, purché il giorno dopo arrivi puntualmente nel suo ufficio, pronta a fare con diligenza il proprio lavoro, nell’interesse della Finlandia.

Imparzialità, integrità, indipendenza, disciplina e onore

Adesso facciamo un passo indietro (come le pedine del famoso Gioco dell’Oca) e leggiamo l’art. 10 del Codice. Questo breve articolo, costituito da un solo comma, è diviso in due parti: la prima parte vieta al dipendente di sfruttare o menzionare il proprio ruolo pubblico, per ottenere utilità che non gli spettino; la seconda parte invece, vieta al dipendente di assumere qualunque altro comportamento “che possa nuocere all’immagine dell’amministrazione”. Se adottiamo la prospettiva dell’art. 10, il giudizio sul comportamento di Sanna Marin si modifica completamente. Quando la premier finlandese afferma: “voglio fidarmi e credere che le persone guarderanno a ciò che facciamo al lavoro, piuttosto che a ciò che facciamo nel nostro tempo libero”, si inganna e dice una cosa priva di qualunque fondamento, perché chiunque esercita una funzione pubblica deve rendere conto in ogni momento dei comportamenti adottati nella sua sfera privata, e dimostrare di essere all’altezza del proprio ruolo. I divieti contenuto nell’art. 10 chiamano in causa i principi di indipendenza, imparzialità (reale e percepita), integrità e il rispetto del dovere costituzionale di disciplina e onore da parte di coloro cui le funzioni pubbliche sono affidate[4]: sono regole “TRUST”, che rendono una Pubblica Amministrazione un soggetto credibile agli occhi dell’opinione pubblica e della collettività.

La bilancia

Ma allora, chi ha ragione? Applicare le astratte regole del Codice di comportamento a casi reali è sempre un utile esperimento, e nel nostro caso l’esperimento ha dimostrato, ancora una volta, che l’etica pubblica non è una bussola, che indica in ogni momento il comportamento giusto da adottare, ma è piuttosto una bilancia che tiene in equilibrio principi ed aspettative molto diverse tra loro. L’art. 11 chiede al dipendente di usare degnamente il potere pubblico che gli è stato affidato, in un’ottica “FIT”. L’art. 10, invece, chiede al dipendente pubblico di essere degno del proprio ruolo, in un’ottica “TRUST”.

L’art. 10 e l’art. 11 del Codice di comportamento sono in qualche modo simili alle due facce del dio romano Giano: guardano in direzioni diverse nel tentativo di aiutare i dipendenti pubblici a gestire in modo adeguato la propria sfera privata e la propria sfera professionale.

Il nostro compito, e l’obiettivo di questo articolo, non è determinare quale delle due facce di Giano è più importante. Dobbiamo, piuttosto, identificare le situazioni in cui i comportamenti adottati nella vita privata e della vita professionale di un dipendente pubblico possono incidere sul buon andamento e sull’imparzialità della sua organizzazione, nonché le situazioni in cui sfera pubblica e privata possono entrare in conflitto.

I giorni peggiori della nostra vita

Il Caso. Quante scorrettezze potrebbe compiere un dipendente pubblico sprovveduto, e anche molto sfortunato? Vediamolo insieme, leggendo questa storia, che mette in scena una sequenza paradossale di passi falsi, che mettono a rischio l’integrità del ruolo pubblico e l’immagine della Pubblica Amministrazione. Il protagonista, Ippolito Jella, è un degno erede del ragionier Ugo Fantozzi, ma di mestiere fa il vigile urbano ed ha una vita di coppia meno felice, nonché una famiglia più numerosa e molto più ingombrante …

I. Tutte le donne di Ippolito Jella.

Ippolito Jella lavorava come agente di polizia municipale presso il Comune di Scalogna sul Nera ed era un uomo buono, ma decisamente sfortunato. Anche le sue scelte in materia di donne avevano sempre lasciato a desiderare, conducendolo nella maggior parte dei casi a vivere grandi delusioni sentimentali, oppure relazioni tossiche; proprio come quella che per lunghi anni lo aveva legato alla sua ex moglie, Selvaggia Santippe.

Sua madre lo aveva avvisato:

Ippolito, non puoi sposare una donna il cui nome è una dichiarazione di guerra!

Ma lui non volle ascoltarla!

Sua madre si chiamava Medea Mignatta[5] e le mamme hanno sempre ragione: una brutta sera, dopo l’ennesimo litigio, la signora Santippe aveva messo Ippolito Jella alla porta, augurandogli ogni male; e lui, non avendo altro posto in cui andare, era tornato a vivere con la sua famiglia.

La signora Mignatta offrì al figlio un comodo divano, perché aveva subaffittato la sua stanza a una famiglia di immigrati clandestini; e lo accudì amorevolmente, fino al giorno in cui Ippolito Jella trovò un nuovo appartamento in cui andare ad abitare: un bilocale seminterrato, con annessa cantina e radon, sepolto sotto un palazzone di periferia. Durante il soggiorno presso la madre, Ippolito Jella riallacciò i rapporti con la sorella, Ifigenia, e con sua nipote, la giovane Elettra.

Prima di congedarsi, Ippolito abbracciò sua madre:

Senza di te, sarei finito a vivere sotto un ponte: non so come ringraziarti!

Lo troverò io il modo … ‒ rispose lei, con uno strano ghigno sul volto

II. Corsie preferenziali

Quando Ifigenia Jella aveva conseguito la patente, a Scalogna sul Nera in molti avevano gridato al miracolo; altri invece avevano ricordato che Ifigenia, da alcuni mesi, frequentava un ispettore della Motorizzazione Civile.

Comunque fossero andate le cose, era un dato di fatto che Ifigenia Jella non sapesse riconoscere la prima dalla retromarcia e rappresentasse un pericolo concreto, quando guidava l’automobile.

Una sera di giugno la signora Medea Mignatta telefonò a suo figlio:

Ippolito, tua sorella ha bisogno di aiuto.

Cos’è successo?

È finita con la macchina dentro la corsia preferenziale del tram, in via Rogna, nel centro di Scalogna sul Nera!

Bel colpo! Ha preso la mira, oppure è la famosa fortuna dei principianti?

Non scherzare sulle disgrazie di Ifigenia! L’auto è rimasta incastrata nei binari del tram e hanno dovuto chiamare un carro attrezzi per tirarla fuori. Le hanno dato anche la multa!

Hanno fatto bene… così la prossima volta si ricorda che guida un’auto e non un tramway!

Ippolito, tua sorella non vuole pagarla, questa multa, e tu la aiuterai!

Medea Mignatta aveva pronunciato l’ultima frase con uno strano tono nella voce, a metà tra il rimprovero e il comando. Ippolito Jella cercò di chiarire la sua posizione:

Mamma, cerca di capire… è il mio Comando e la multa l’hanno data i miei colleghi. E a ragione: non si circola nelle corsie preferenziali, c’è anche il cartello che lo vieta…

Ma è tua sorella che ha preso la multa, non una persona qualsiasi ‒ gridò la signora Medea al telefono; poi fece una pausa e concluse la frase con tono solenne:

Quando tua moglie ti ha cacciato di casa, noi ti abbiamo aiutato: ora devi rendere il favore!

Ippolito Jella rimase senza parole. E decise di aiutare sua sorella: ma come? La sanzione era legittima e la dinamica dell’incidente incontrovertibile!

Il giorno successivo, dopo il lavoro, si recò in via Rogna, osservando con attenzione il traffico dei veicoli e dei mezzi pubblici: i tram entravano nella corsia preferenziale senza esitazione, saldamente ancorati alle rotaie; invece, gli automobilisti che svoltavano a sinistra per immettersi in via Rogna (come aveva fatto sua sorella), avevano spesso delle esitazioni. Dopo alcuni minuti, Ippolito Jella capì dove stava il problema: il cartello che indicava il divieto di immissione nella corsia riservata ai tram era nascosto dietro i rami di un albero, che cresceva a lato della strada. Inoltre, in via Rogna l’Azienda del Gas aveva effettuato dei lavori e la segnaletica orizzontale, in certi punti, era completamente assente. Questi due fatti, sommati insieme, creavano confusione negli automobilisti.

Chiamò subito la madre:

Buone notizie! Ifigenia può fare un ricorso al giudice di pace, chiedendo l’annullamento della sanzione. La segnaletica in via Rogna trae in inganno gli automobilisti!

La signora Medea fu molto felice e impose a Ippolito Jella di accompagnare sua sorella all’udienza davanti al giudice di pace. Fu un momento molto imbarazzante: Ippolito Jella prese un giorno di ferie, e si ritrovò nella stanza del giudice, accanto alla sorella, insieme a un suo collega intervenuto in rappresentanza del Comune di Scalogna sul Nera. Il collega lo guardava allibito e lui abbassava gli occhi, per la vergogna: si sentiva come un marinaio coinvolto, suo malgrado, in un tentativo di ammutinamento.

Ippolito Jella pensò che quello fosse il peggiore giorno della sua vita. Ma i giorni peggiori della nostra vita non sono degli iceberg, che emergono soli dalle acque del tempo e contro i quali ci andiamo a schiantare; sono piuttosto una lunga catena di scogli sottomarini, che si susseguono, uno dopo l’altro, e danneggiano il fondo della zattera su cui navighiamo.

III. Una notte di ordinaria follia.

Quando l’autunno era ormai alle porte, Ippolito Jella ricevette una telefonata da sua nipote Elettra:

Ciao zio! Lo sai che la settimana prossima Al Gery fa un concerto in piazza a Scalogna sul Nera? Io ho già preso il biglietto!

Lui rispose con un grugnito. Gerardo Al-Bari, in arte Al Gery, era un cantante trap afro-pugliese, famoso per i suoi testi freestyle su basi di pizzica travolgenti, inneggianti allo spaccio di taralli e all’abuso di Negroamaro. Ippolito Jella non amava quel tipo di musica, che invece piaceva molto ad Elettra, e non solo a lei:

L’altro giorno ho fatto ascoltare le canzoni di Al Gery a nonna Medea, e le sono piaciute moltissimo! Voglio farle una sorpresa, ma tu, mi raccomando, devi trovarci un posto in prima fila!

Nipotina mia, io sono un semplice agente di polizia municipale! ‒ rispose Jella, sentendo un leggero odore di fregatura nell’aria ‒ Non conosco gli organizzatori dell’evento e non saprei come aiutarti!

Ma, insomma, zietto! ‒ esclamò Elettra, con un tono pericolosamente tendente al “corsivo” ‒ Non vuoi fare un regalo alla nonna? È stata così gentile con te, quando non avevi una casa!

Ippolito Jella, nel profondo del suo cuore, maledì il giorno in cui aveva chiesto ospitalità a sua madre, e promise ad Elettra di fare tutto il possibile.

Nei giorni successivi, fece il diavolo a quattro per essere di turno la sera del concerto e quando ormai il pubblico incominciava ad accalcarsi sulle transenne davanti al palco, andò a parlare con il responsabile della security:

Salve! Sono l’Agente Jella, del Comando di Polizia Municipale. Avrei bisogno di far entrare una signora anziana e sua nipote nel settore accreditati.

Il responsabile della security, un uomo enorme e con il setto nasale deviato da un passato da pugile professionista, gli rispose in modo niente affatto cordiale:

Non si può. E il concerto sta per cominciare: si allontani e non mi faccia perdere tempo!

Se vuole perdiamo tempo insieme, e mi fa vedere se avete tutte le autorizzazioni ‒ ribatté Jella con tono di voce glaciale.

No, beh…

E, già che ci siamo, verifichiamo anche i decibel del vostro impianto di amplificazione. Oggi pomeriggio, durante le prove, diversi cittadini hanno telefonato al Comando, lamentandosi per il rumore eccessivo.

Agente, io intendevo solo dire che …

E io le sto dicendo che il vostro concerto non comincerà proprio!

Il responsabile della security capì che la discussione stava prendendo una brutta piega: pochi minuti dopo, Elettra e Medea varcavano sorridenti le transenne e si posizionavano sotto il palco, nell’area riservata agli accreditati.

Il concertò iniziò sotto un cielo plumbeo e con un’afa pazzesca che presagiva un temporale imminente. Per nulla interessato alle canzoni di Al Gery, l’agente Jella passò il suo tempo in un angolo della piazza, a chiacchierare con la collega di turno insieme a lui e con i volontari della Croce Rossa, che avevano i suoi stessi gusti musicali. La serata fu allietata da una rissa tra giovani spettatori e da un paio di persone che, nella calca del concerto, si erano ritrovate senza portafoglio o cellulare.

Poi, improvvisamente, ricevette una telefonata da Elettra, che urlava disperatamente, per farsi sentire al di sopra della musica:

Zio, zio aiuto! La nonna è svenuta!

Ippolito Jella si precipitò insieme ai volontari dell’ambulanza fin sotto il palco, per portare sua madre al riparo dalla folla

Sto morendo! ‒ gemeva Medea Mignatta, notoriamente ipocondriaca.

È solo un calo di zuccheri! ‒ decretava uno dei volontari, dopo averle misurato la pressione.

Qualcuno chiami la mamma! ‒ gridava Elettra, dimenticandosi di avere un telefono.

Stava anche cominciando a piovere e Ippolito Jella fu colto da una fatale crisi di nervi: caricò madre e nipote sull’auto di servizio e partì con le sirene spiegate, lasciando appiedata la sua collega. Mentre guidava, inveiva a turno contro Medea, contro Elettra, contro Ifigenia, esortandole con epiteti che tralasceremo di trascrivere su questa pagina, per non urtare la sensibilità di lettrici e lettori.

Dopo avere scaraventato giù dall’auto sua madre e sua nipote, davanti alla porta delle loro rispettive abitazioni, Ippolito Jella tornò verso il comando. Nel buio della notte, confuso dalla pioggia battente e dai cattivi pensieri, entrò in un incrocio senza dare la precedenza, schiantandosi contro un veicolo che proveniva da destra. Seguirono parole poco amichevoli, cazzotti, la richiesta di intervento della polizia stradale, dell’ambulanza e del carro attrezzi, giunto pietosamente a rimuovere i miseri resti delle automobili coinvolte nell’incidente.

Ippolito Jella ritornò a piedi al Comando, vagando per ore sotto il temporale, ed arrivò quando ormai era giorno inoltrato:

E ora come faccio? Ho la divisa tutta fradicia! ‒ si chiese, parlando da solo e pallido come uno spettro.

I suoi colleghi lo videro togliersi la divisa e rimanere in mutande. E in mutande si sedette alla scrivania, per redigere il rapporto di servizio. E sempre in mutande andò a timbrare il cartellino, con l’unico desiderio di seppellirsi nel suo bilocale seminterrato e dormire, per dimenticare quella notte di ordinaria follia.

Un suo collega ebbe la bella idea di filmarlo; e il video, chissà come, finì nella casella di posta elettronica di un giornalista e da lì sulla home page di una testata di informazione locale

In Comune in mutande!”: questo il titolo dell’articolo che commentava il video e denunciava il degrado dell’Amministrazione comunale di Scalogna sul Nera, dove ai dipendenti manca perfino la decenza di arrivare vestiti al lavoro perché, evidentemente, hanno ben altro da fare.

Assassini di interessi pubblici

Gli eventi e le regole. I comportamenti scorretti adottati dai dipendenti pubblici sul lavoro e nella loro vita privata seguono degli schemi abbastanza fissi e sono facili da “profilare”: C’è il “vandalo”, che adotta comportamenti che danneggiano l’immagine della sua amministrazione. C’è “l’opportunista”, che sfrutta la sua funzione pubblica, come se fosse una rendita di posizione. Poi abbiamo “il suggeritore”, che a tempo perso aiuta amici e parenti a trarre ad avere relazioni vantaggiose con il sistema pubblico, e “il santo in paradiso”, che invece li aiuta quando è sul lavoro. Infine, ci sono “i dissipatori”, noti anche con altri epiteti (fannulloni, furbetti, ecc), che sprecano le risorse pubbliche. Gli artt. 10 e 11 del codice di comportamento nazionale consentono di sanzionare gran parte di queste condotte scorrette, ma non tutte.

Al disgraziato protagonista del nostro caso ne capitano di tutti i colori. E lui, travolto dagli eventi, mette in atto una serie di comportamenti che potremmo definire “scorretti”, cioè in vario modo disallineati dai principi e dalle regole dell’Etica pubblica.

Ovviamente, la vicenda di Ippolito Jella è irreale e per certi versi paradossale: nessuna persona dotata di senno potrebbe mai mettere in atto così tante scorrettezze nel giro di pochi mesi. Tuttavia, presi singolarmente, gli episodi della sua storia possono fornire uno spunto, per tentare una profilazione dei comportamenti scorretti: così come i criminologi tentano di definire l’offender profiling dei serial killer, noi cercheremo di profilare i public-interest killer, cioè quei dipendenti che, nella loro vita privata o professionale, mettono a rischio l’imparzialità, l’immagine o il buon andamento della loro pubblica amministrazione.

Vandali

Cominciamo dalla fine: Ippolito Jella torna al Comando in stato confusionale e timbra in mutande. Questa immagine ne richiama alla mente subito un’altra, entrata nell’immaginario collettivo degli Italiani e indissolubilmente associata alla vicenda giudiziaria dei “furbetti del cartellino” del Comune di Sanremo.

Nell’ottobre del 2015 una inchiesta della Guardia di Finanza aveva coinvolto 195 persone (più o meno un terzo dei dipendenti comunali della Città dei Fiori), apparentemente affette da un singolare caso di assenteismo collettivo[6]. Il Comune di Sanremo avviò una serie di procedimenti disciplinari, irrogando sanzioni e licenziamenti, e a 42 dipendenti furono contestati i reati di falso in atto pubblico e truffa ai danni dello Stato.

L’iter giudiziario di questa controversa vicenda si è concluso nel 2022, con 16 patteggiamenti, 15 condanne e 10 assoluzioni[7]; e così oggi sappiamo che timbrare in mutande non è un reato: Alberto Muraglia, l’ex vigile annonario immortalato dalle telecamere della Guardia di Finanza mentre compiva tale prodezza, è stato assolto infatti dal GUP del Tribunale di Imperia nel 2020 perché il fatto non sussiste, e tale assoluzione è stata confermata nel 2022 dalla Corte d’Appello di Genova.

La Corte d’Appello, nelle motivazioni della sentenza, ha chiarito che i comportamenti adottati dall’agente di polizia municipale, e dagli altri dipendenti assolti, “sono certamente rilevanti sotto il profilo disciplinare e giustificano pienamente le sanzioni irrogate in tale ambito in relazione alle violazioni a ciascuno di essi ascritte ed oggettivamente accertate”[8], ma non sono rilevanti sotto il profilo penale.

In effetti, Muraglia era anche il custode del mercato ortofrutticolo, sito a pochi metri dalla porta di casa sua, ed il suo Comandante lo aveva autorizzato ad aprire la struttura all’alba, in abiti borghesi, per poi rientrare nella sua abitazione e indossare la divisa. Ma cosa lo ha indotto a timbrare il cartellino in mutande? Lo ha spiegato lui stesso, fin dall’inizio: il suo alloggio, il suo ufficio e la timbratrice erano nello stesso edificio e timbrare in slip (per poi indossare la divisa) era una strategia derivante dalla “necessità di stringere i tempi per la rimozione di veicoli che ostacolavano il posizionamento dei banchi del mercato”[9]. E una volta, in occasione di una Milano-Sanremo conclusasi sotto una pioggia battente, aveva timbrato in slip “per non attraversare casa bagnato fradicio”[10].

Nonostante questo, Alberto Muraglia è stato licenziato, ha dovuto cambiare lavoro ed è diventato, suo malgrado, un’icona dell’assenteismo dei dipendenti pubblici. Quale colpa ha commesso? Sicuramente, ha adottato dei comportamenti che, visti dall’esterno (come poi è accaduto) avrebbero potuto generare un danno all’immagine del suo Comune: dopo l’assoluzione, Muraglia ha infatti dichiarato: “Se non fossi stato in mutande la mia vicenda non avrebbe avuto l’eco che ha avuto, probabilmente. Sono stato colpevole di malcostume, forse di una scorrettezza amministrativa, ma non certo di truffa allo Stato”[11].

Forse il povero vigile sanremese ha pagato un prezzo troppo elevato, per la sua inconsapevolezza, ma la sua storia ci può aiutare a identificare un primo tipo di public-interest killer: i vandali. Si tratta di dipendenti pubblici che nella propria vita privata o professionale adottano comportamenti che demoliscono l’immagine e la credibilità della loro amministrazione, spesso senza nemmeno percepire il disvalore delle proprie condotte. Questi comportamenti possono essere messi in atto nella sfera privata o nella sfera professionale pubblica: non fa alcuna differenza; quello che è rilevante, infatti, è la visibilità del comportamento adottato e il suo impatto sulla pubblica opinione. Tuttavia, l’art. 10, che vieta di adottare qualunque comportamento che possa, anche ipoteticamente, nuocere all’immagine dell’amministrazione, si applica unicamente ai rapporti privati e non prende in considerazione la sfera professionale pubblica. Una lacuna abbastanza singolare: i vandali dell’interesse pubblico non sono come i writers, che imbrattano i muri esterni delle case! Possono imbrattare anche le pareti interne dei loro uffici!

Opportunisti e suggeritori.

L’art. 10 del Codice di comportamento contiene anche un ulteriore divieto:

· “il dipendente non sfrutta, né menziona la posizione che ricopre nell’amministrazione per ottenere utilità che non gli spettino”.

Questo divieto si applica ai rapporti extra-lavorativi con soggetti privati e ai rapporti extra-lavorativi con pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni; ed è una regola finalizzata a sanzionare gli opportunisti, cioè quei soggetti che fanno un uso strumentale della propria funzione pubblica, per conseguire vantaggi nella sfera privata. Il divieto è abbastanza circoscritto e non vieta al dipendente di sfruttare o menzionare il proprio ruolo, per ottenere delle utilità che gli sono dovute: per esempio, non vieta al dipendente di un Comune di comunicare ad una banca informazioni relative al proprio contratto di lavoro, per accedere ad un finanziamento riservato ai dipendenti pubblici; e non vieta ad un medico di sottoscrivere un’assicurazione che lo tuteli dai rischi professionali.

C’è però un ulteriore schema di comportamento, in realtà abbastanza facile da identificare, che l’art. 10 ignora completamente: il dipendente, nella sua sfera privata, potrebbe sfruttare le informazioni che detiene in virtù del proprio ruolo pubblico, per favorire qualcun altro. È esattamente quello che fa Ippolito Jella nella seconda parte del caso, quando fornisce a sua sorella una serie di informazioni, utili a presentare un ricorso al giudice di pace. In questo caso, probabilmente, la sua condotta non ha nulla di illegale, ma il nostro protagonista si comporta come un suggeritore, che usa per scopi privati le informazioni e le competenze di cui dispone, in virtù del proprio ruolo, per avvantaggiare un destinatario del suo ufficio. In nome dei principi di imparzialità e uguaglianza tra i destinatari, il dipendente pubblico dovrebbe astenersi dall’adottare questi comportamenti, ma in virtù di quale regola?

Santi in paradiso e dissipatori

Nella terza e ultima parte del nostro caso abbiamo messo sotto osservazione il comportamento in servizio di Ippolito Jella. Il nostro protagonista, finalmente, indossa la divisa e si cala nel suo ruolo pubblico, adottando due condotte che possiamo facilmente qualificare come scorrette e contrarie ai principi di imparzialità e buon andamento:

· esercita delle pressioni sul responsabile della security, per garantire ai suoi parenti un posto in prima fila al concerto di Al-Gery

· sottrae l’auto di servizio, per accompagnare a casa sua madre e sua nipote, e la distrugge facendo un incidente.

Possiamo facilmente etichettare queste condotte, identificando due ulteriori profili di public-interest killer.

Il primo profilo è associato ai dipendenti pubblici che, nell’esercizio della loro funzione, favoriscono soggetti con cui sono in relazione nella sfera privata: sono i famosi santi in paradiso, i mediatori occulti che facilitano i rapporti tra destinatari e pubblica amministrazione. La ricerca di un santo in paradiso è una delle principali occupazioni dei destinatari del sistema pubblico italiano e questi mediatori hanno diversi volti: l’amico che lavora al CUP, che ci fa avere una visita in tempi più brevi, il professionista che conosce il dirigente dell’ufficio urbanistica al quale dobbiamo presentare una pratica, la zia che lavora in Provincia e ci fornisce il numero di cellulare del dirigente di un certo ufficio, ecc…

Generalmente, i destinatari che cercano il proprio santo in paradiso non hanno la percezione di adottare comportamenti immorali e chi si presta a giocare questo ruolo, nella maggior parte dei casi, lo fa per non deludere le aspettative di persone con cui sono, direttamente o indirettamente, in relazione nella loro vita privata.

Per questo è importante ricordare con forza ai dipendenti, che i santi in paradiso stanno violando l’art. 7 del codice di comportamento, perché non si astengono dallo svolgere attività, prendere decisioni e gestire informazioni che coinvolgono soggetti con cui sono in relazione familiare, di frequentazione abituale o di scambio nella loro vita privata.

L’uso improprio dell’auto di servizio, invece, è un comportamento caratteristico dei dissipatori, cioè dei dipendenti pubblici che sprecano le risorse della loro amministrazione. Possiamo usare il termine “risorse” in modo estensivo, per riferirci a tutto ciò che è utile ad una amministrazione, per raggiungere i propri obiettivi:

· beni mobili e immobili;

· processi organizzativi e sistemi;

· ruoli e gerarchie;

· competenze e conoscenze del personale

· risorse finanziarie;

· ecc …

Di conseguenza, è un dissipatore non soltanto chi usa in modo inadeguato i beni mobili dell’amministrazione, ma anche chi non svolge adeguatamente il proprio ruolo, chi gestisce male i processi, chi spreca i soldi, chi non rispetta le gerarchie, oppure, ancora, chi non valorizza adeguatamente le competenze dei propri collaboratori.

Le condotte dissipative hanno un impatto sul buon andamento dell’organizzazione pubblica e sono gestite dall’art. 11 del codice di comportamento, attraverso un elenco eterogeneo e di certo non esaustivo di doveri:

1. Fermo restando il rispetto dei termini del procedimento amministrativo, il dipendente, salvo giustificato motivo, non ritarda ne’ adotta comportamenti tali da far ricadere su altri dipendenti il compimento di attività o l’adozione di decisioni di propria spettanza.

2. Il dipendente utilizza i permessi di astensione dal lavoro, comunque denominati, nel rispetto delle condizioni previste dalla legge, dai regolamenti e dai contratti collettivi.

3. Il dipendente utilizza il materiale o le attrezzature di cui dispone per ragioni di ufficio e i servizi telematici e telefonici dell’ufficio nel rispetto dei vincoli posti dall’amministrazione. Il dipendente utilizza i mezzi di trasporto dell’amministrazione a sua disposizione soltanto per lo svolgimento dei compiti d’ufficio, astenendosi dal trasportare terzi, se non per motivi d’ufficio.

L’art. 11 è la parte del codice di comportamento più di frequente integrata dalle singole amministrazioni, per affrontare temi come il risparmio energetico, le pari opportunità, la soddisfazione degli utenti, i diritti umani e persino la pace nel mondo! Le regole di comportamento in servizio, insomma, sono un sistema aperto di obblighi e doveri: cosi come un ristoratore nel suo menu mette nero su bianco cosa ci si può aspettare dalla cucina, specificando antipasti, primi e secondi, dolci e bevande, per consentire ai clienti di comporre un allettante pasto; allo stesso modo le amministrazioni pubbliche, attraverso le regole di comportamento in servizio, presentano ai propri dipendenti e destinatari, ma anche all’opinione pubblica, un menù di condotte attese, assai diverse tra loro, che definiscono il profilo di un agente pubblico affidabile e il più possibile allineato alla cultura, ai valori e alle politiche dell’organizzazione.

Cucinare bene le regole: tecniche di ancoraggio

L’ancoraggio è l’insieme di processi che consentono ad una organizzazione pubblica di rendere effettive le regole previste dal codice nazionale dei dipendenti pubblici. Le regole non devono restare solo sulla carta, così come le portate di un ristorante non devono restare scritte unicamente sul menù: devono essere cucinate e servite adeguatamente ai destinatari.

Abbiamo finito di scrivere questo articolo a Ferragosto, un’antica festa dei Romani (Feriae Augusti), oggigiorno dedicata all’Assunzione di Maria e all’Accensione del Barbecue. E così abbiamo pensato, che una buona idea è come una buona costina: non si può lasciare a metà! E abbiamo quindi deciso di applicare l’idea del menù anche ai codici di comportamento nella loro interezza; perché in effetti i codici sono delle lunghe liste di regole da cucinare a regola d’arte… pardon! Da realizzare concretamente all’interno delle organizzazioni pubbliche.

I menù hanno un ordine preciso e nessun ristorante sarebbe così eccentrico da proporre ai propri clienti l’elenco dei dolci prima dell’antipasto! E lo stesso ragionamento può valere per i codici di comportamento, dove le regole che hanno una portata più generale dovrebbero essere date in pasto ai destinatari prima di quelle che trattano argomenti più specifici.

Sembra un’idea ovvia, ma non è questo l’ordine del Codice nazionale, che prima parla di doni (art. 4), di adesione alle associazioni (art.5), di conflitti di interessi (artt. 6 e 7), di prevenzione della corruzione (art. 8) e di trasparenza (art.9); e poi, agli artt. 10 e 11, introduce finalmente le regole generali sul comportamento in servizio e nei rapporti privati. Noi non crediamo che i dipendenti passino le loro giornate a chiedere o ricevere doni, ad associarsi o a dichiarare conflitti di interessi; mentre siamo certi che qualunque dipendente pubblico abbia una propria vita privata, che corre parallela alla sua vita professionale; e che la vita privata e la vita professionale sono proprio i contesti in cui emergono gli scenari di rischio che, di volta in volta, rendono necessaria l’introduzione di regole specifiche per la gestione dei doni, del conflitto di interessi e per la trasparenza nei rapporti con le realtà associative. Per questa ragione, suggeriamo alle pubbliche amministrazioni di inserire le regole sul comportamento in servizio e sulle relazioni private all’inizio dei loro codici, subito dopo i principi dell’etica pubblica. E, di seguito, cercheremo di fornire qualche suggerimento, per ancorare al meglio le regole all’interno dell’organizzazione.

Scrivere le regole

Abbiamo visto che l’articolo 10 del Codice nazionale consente di sanzionare gli opportunisti, cioè i dipendenti pubblici che, nella loro vita privata, sfruttano o menzionano il proprio ruolo pubblico, per ottenere utilità non dovute; ma non consente di sanzionare i suggeritori, perché non vieta esplicitamente al dipendente di usare le informazioni e le competenze di cui dispone, in virtù del proprio ruolo, per avvantaggiare un destinatario del suo ufficio, con cui è in relazione nella vita privata. Questa lacuna potrebbe dipendere dal fatto che tale comportamento è già vietato da altri articoli del Codice che, nella struttura attuale, precedono l’articolo 10; e gli art. 6 e 7, a prima vista, potrebbero essere dei buoni candidati!

L’art. 6, comma 2 impone infatti al dipendente di astenersi “dal prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi con interessi personali, del coniuge, di conviventi, di parenti, di affini entro il secondo grado”; e l’art. 7 generalizza quest’’obbligo di astensione in relazione ad un’ampia gamma di relazioni della sfera privata, anche diverse da quelle familiari[12]. Tuttavia, l’astensione cui fanno riferimento gli art. 6 e 7 e una misura organizzativa, che impatta sulle decisioni e sulle attività che possono essere gestite dal dipendente nella sua sfera professionale, e che viene decisa dal superiore gerarchico, dopo che il dipendente ha dichiarato una situazione di conflitto di interessi: è evidente che questa misura non può essere applicata alle decisioni e ai comportamenti adottati dal dipendente nella sua vita privata; ed è altrettanto evidente, che imporre l’astensione esclusivamente nella sfera professionale significa gestire il conflitto di interessi solo a metà, e in certi casi per niente[13].

Proponiamo, quindi di integrare nel modo seguente l’art. 10 del Codice di comportamento[14]:

1. Nei rapporti privati, comprese le relazioni extralavorative con pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, il dipendente non sfrutta, né menziona la posizione che ricopre nell’amministrazione per ottenere utilità che non gli spettino.

2. Il dipendente non utilizza le proprie conoscenze o le informazioni di cui dispone in virtù della posizione che ricopre nell’amministrazione, per avvantaggiare soggetti terzi con cui è in relazione nella vita privata.

3. Il dipendente non assume nessun altro comportamento che possa nuocere all’immagine dell’amministrazione.

L’articolo 10 consente anche di sanzionare i vandali, che nei rapporti privati adottano comportamenti che possono nuocere all’immagine della loro amministrazione, ma non fa riferimento a comportamenti analoghi, che possono essere adottati nell’esercizio della funzione pubblica. Per sanzionare questo tipo di comportamenti, dobbiamo integrare l’articolo 11:

1. Fermo restando il rispetto dei termini del procedimento amministrativo, il dipendente, salvo giustificato motivo, non ritarda né adotta comportamenti tali da far ricadere su altri dipendenti il compimento di attività o l’adozione di decisioni di propria spettanza.

2. Il dipendente utilizza i permessi di astensione dal lavoro, comunque denominati, nel rispetto delle condizioni previste dalla legge, dai regolamenti e dai contratti collettivi.

3. Il dipendente utilizza il materiale o le attrezzature di cui dispone per ragioni di ufficio e i servizi telematici e telefonici dell’ufficio nel rispetto dei vincoli posti dall’amministrazione. Il dipendente utilizza i mezzi di trasporto dell’amministrazione a sua disposizione soltanto per lo svolgimento dei compiti d’ufficio, astenendosi dal trasportare terzi, se non per motivi d’ufficio.

4. Il dipendente non adotta comportamenti o decisioni e non rilascia dichiarazioni che possano nuocere all’immagine dell’amministrazione.

Ciascuna amministrazione, infine, può integrare i contenuti dell’articolo 11, per identificare e sanzionare i dissipatori di risorse pubbliche. È impossibile determinare, a priori, gli standard di comportamento finalizzati alla tutela delle risorse, ma in linea di massima potrebbe essere utile inserire:

· un generico obbligo di utilizzare in modo adeguato le risorse dell’amministrazione

· uno specifico dovere di curare e gestire adeguatamente le relazioni professionali

· il divieto di mettere in atto comportamenti discriminatori nei confronti dei colleghi e degli utenti;

· l’obbligo di segnalare correttamente la presenza in servizio;

· l’obbligo di curare il decoro personale e l’abbigliamento, soprattutto per gli uffici che hanno frequenti rapporti con il pubblico.

Leadership etica

I leader di un’organizzazione incarnano le regole e, con il loro esempio, influenzano il comportamento dei collaboratori; questo ormai lo sappiamo. Tuttavia, quando sono in gioco i comportamenti nei rapporti privati e le risorse dell’amministrazione, la leadership etica potrebbe rappresentare il principale veicolo di ancoraggio delle regole, per un paio di precise ragioni.

Innanzitutto, l’art. 10 è abbastanza vago: quali sono esattamente i comportamenti che potrebbero nuocere all’immagine dell’amministrazione? Non è ovviamente possibile stilare un elenco completo, perché l’impatto dei comportamenti adottati da un dipendente sull’immagine della sua amministrazione dipende, in modo cruciale, dal ruolo svolto e dalla visibilità di tali comportamenti: ad un professionista sanitario che lavora alle dipendenze di una ASL potremmo sconsigliare di promuovere un corteo “no-vax”; mentre per un agente di polizia locale potrebbe essere inopportuno partecipare ad un concerto di musica underground organizzato da un centro sociale autogestito, che occupa abusivamente uno stabile di proprietà del Comune! Di conseguenza, i dipendenti, se hanno dei dubbi, si rivolgeranno al proprio dirigente o responsabile, per capire cosa possono fare e cosa non possono fare; ma soprattutto, osserveranno i comportamenti adottati, fuori e dentro l’ufficio, dal proprio superiore gerarchico.

L’articolo 11, invece, elenca una serie di risorse molto concrete, che il dipendente deve usare in modo adeguato: materiali e attrezzature in dotazione all’ufficio, servizi telematici e telefonici e i mezzi di trasporto. Possiamo integrare questo elenco, ma saremo sempre portati ad aggiungere alla lista delle risorse tangibili, o comunque immediatamente percepibili dal dipendente: le fotocopiatrici, la divisa, la luce che illumina gli uffici o i termosifoni che li riscaldano, ecc … È  invece molto più difficile inserire nei codici un esplicito riferimento alle risorse intangibili o difficilmente identificabili.

I ruoli assegnati alle persone all’interno dell’organizzazione, per esempio, sono una risorsa indispensabile, per il buon funzionamento dei processi; ma i ruoli sono qualcosa di sfuggente, come dimostra la grande difficoltà che le Amministrazioni incontrano nella definizione dei propri mansionari e organigrammi: i ruoli vengono vissuti, prima ancora di essere descritti. Usare correttamente il proprio ruolo significa farsi usare, mettersi al servizio degli interessi primari della propria amministrazione e non usarlo per scopi diversi da quelli per cui è stato istituito. Tuttavia, tutti questi bei ragionamenti sull’utilizzo del ruolo, che stanno benissimo dentro un articolo che tratta di etica pubblica, non potranno mai trovare posto dentro i codici di comportamento, che devono continuare ad essere una lista di ingiunzioni semplici e comprensibili a tutti, e non diventare degli astratti trattati di psicologia organizzativa e filosofia morale. Ma ancora una volta, i prodi leader possono accorrere in nostro aiuto! Le funzioni dirigenziali, infatti, sono risorse che l’amministrazione mette a disposizione dei propri dipendenti.

Se i dirigenti e i responsabili degli uffici non si limitano a gestire i propri collaboratori, ma si mettono anche al loro servizio, e li supportano adeguatamente con processi di valutazione, comunicazione e monitoraggio; allora sarà più facile per i dipendenti comprendere la funzione strumentale dei ruoli organizzativi e mettersi al servizio dell’organizzazione.

Procedure

Le regole di comportamento in servizio e nei rapporti privati sono una misura di controllo dei comportamenti organizzativi, tuttavia gli artt. 10 e 11 hanno un contenuto davvero molto generico e, per essere effettivamente attuati, è opportuno che siano tradotti in procedure di gestione. Ovviamente, questo passaggio dalle regole alle procedure (cioè dai comportamenti ai processi) è possibile solo per le regole dell’art. 11, che trattano del comportamento in servizio. L’adesione alle regole dell’art. 10, invece, resta una responsabilità dei singoli dipendenti, e necessita di interventi di sensibilizzazione e formazione; anche se eventuali comportamenti scorretti, adottati da un dipendente nei suoi rapporti privati, potrebbero essere noti ai colleghi del suo ufficio e segnalati attraverso i canali riservati di comunicazione con il RPCT (whistleblowing).

Infine, non deve essere trascurata la relazione tra etica pubblica e gestione della performance. Alcune amministrazioni trattano i codici come strumenti per garantire una efficace gestione dei processi ed il raggiungimento degli obiettivi: la performance viene prima delle regole. A nostro parere, invece, è proprio il contrario: le regole di comportamento in servizio vengono prima di qualunque ruolo e qualunque processo, imponendo ai dipendenti di usare correttamente le risorse dell’organizzazione; ed è il sistema di gestione della performance che deve trasformare i doveri del codice in obiettivi misurabili e sostenibili nel tempo.

Formazione del personale

Abbiamo già detto che le regole di comportamento nei rapporti privati sfuggono al controllo dell’organizzazione e quindi il loro rispetto dipende, anche drammaticamente, dalla capacità di ogni singolo dipendente di vivere dei dilemmi etici e decodificare eventuali situazioni di rischio per l’integrità del proprio ruolo e per l’immagine della sua amministrazione. I nostri lettori sanno bene che di mestiere progettiamo ed eroghiamo percorsi formativi e quindi, in palese situazione di conflitto di interessi, siamo sempre propensi ad affermare che la formazione è un tassello fondamentale dell’ancoraggio delle regole.

Tuttavia, la formazione sugli artt. 10 e 11 non deve in alcun modo parlare del contenuto delle regole: gli obblighi e i divieti introdotti in questi articoli sono infatti molto generici e comprensibili a chiunque!

È necessario, piuttosto, guidare i dipendenti nella complessità delle reti relazionali della sfera pubblica e privata, aiutandoli a identificare i bisogni, le aspettative e gli interessi che le animano, ma anche le dinamiche di strumentalizzazione che possono mettere a rischio gli interessi primari del sistema pubblico. E’ necessario promuovere una cultura dell’ecologia delle relazioni, che rappresenta, a nostro parere, la nuova frontiera dell’etica pubblica e della prevenzione dei fenomeni corruttivi[15].

Le fatiche di Atlante

Conclusioni. Le regole degli artt. 10 e 11 del codice di comportamento definiscono due qualità fondamentali degli agenti pubblici: l’affidabilità e la fedeltà. Un agente pubblico fedele ed affidabile contribuisce a promuovere un clima di fiducia nelle relazioni tra cittadini, sistema pubblico e destinatari. Al contrario, un agente pubblico infedele e inaffidabile genera sfiducia nel sistema pubblico. Per questa ragione, le organizzazioni pubbliche dovrebbero investire maggiormente nella qualità dei propri agenti, e non lasciarli soli nella difficile gestione del proprio ruolo professionale e della propria sfera relazionale privata.

Abbiamo riletto questo articolo. E siamo stati colti da una profonda malinconia, pensando al povero dipendente che, al rientro dalle ferie, timbra sapendo che, durante l’estate, il suo ruolo pubblico non lo ha mai veramente abbandonato: lo ha seguito ovunque, sulle spiagge assolate, nelle città d’arte e lungo i freschi sentieri di montagna.

Abbiamo ripensato anche a Sanna Marin, che ha dovuto ricordare ai finlandesi che anche lei è un essere umano, che ha bisogno di gioia, luce e divertimento. Esercitare un ruolo pubblico è a volte un’impresa disumana, o comunque ai limiti delle capacità umane.

Perché l’integrità è un fardello così pesante? Perché le sorti del sistema pubblico pesano sui dipendenti e sui politici, come la Terra sulle spalle di Atlante?

La risposta a queste domande è contenuta in una parola latina, fides, che indicava, originariamente, l’obbligazione reciproca a osservare i propri doveri, che doveva essere garantita dai soggetti legati da un giuramento, da un patto, da un’alleanza, da una relazione commerciale, ma anche da una relazione di tipo clientelare[16]. Il sostantivo fides è stato fatto risalire da alcuni linguisti alla radice indoeuropea *be(n)dh che significa “legare”[17].

In italiano la fede è invece l’adesione a qualche principio ideale o religioso[18], tuttavia il significato latino originario si è mantenuto nella buona fede richiamata da diversi articoli del Codice civile[19] e soprattutto nei sostantivi fiducia, affidabilità e fedeltà, che sono variamente associati al modo in cui si sta all’interno delle relazioni.

La fiducia è il collante delle relazioni: bisogna fidarsi gli uni degli altri, per entrare e restare in una relazione; l’affidabilità invece è la capacità di non tradire le aspettative e di promuovere gli interessi coinvolti in una relazione; mentre la fedeltà è la forza che ci trattiene dentro una relazione, e che si oppone ad altre forze (nuovi bisogni e nuovi interessi) che fanno sembrare vantaggioso un tradimento. Questi tre concetti sono strettamente collegati tra loro; in particolare, l’infedeltà e l’inaffidabilità demoliscono la fiducia e minano le fondamenta di qualsiasi relazione.

La fiducia è cruciale anche in quella particolare relazione, che lega la collettività al sistema pubblico: la Pubblica Amministrazione non è chiamata soltanto a erogare servizi di qualità per generare valore pubblico, ma deve anche capitalizzare fiducia. Ogni cittadino è in un certo senso portatore di una determinata quota di fiducia, che influenza la sua predisposizione a investire nel pubblico, cioè a rivolgersi al sistema pubblico, attraverso il voto o la richiesta di servizi[20]. Se la fiducia è bassa, il cittadino tenderà a non investire nel settore pubblico, in diversi modi: rivolgendosi ai privati, oppure rinunciando a votare, oppure ancora non pagando tasse, tributi e contributi. Anche la corruzione potrebbe aumentare, quando la fiducia è a livelli minimi: non fidandosi della Pubblica Amministrazione, il cittadino riterrà vantaggioso cercare di addomesticarla, di comprarla.

La fiducia è un concetto che potremmo definire sistemico, che caratterizza le relazioni che intercorrono tra il sistema pubblico, i suoi destinatari e la totalità dei cittadini; l’affidabilità e la fedeltà, invece, sono qualità degli agenti pubblici, cioè dei dipendenti e dei politici che agiscono nell’interesse della collettività:

· un agente pubblico affidabile garantirà un buon uso delle risorse, quando agisce all’interno dell’Amministrazione;

· un agente pubblico fedele si ricorderà del proprio ruolo anche nei rapporti privati, non tradirà la sua Amministrazione e non danneggerà la sua immagine.

Ecco la risposta alle nostre domande: le sorti del sistema pubblico pesano sulle spalle dei singoli individui, perché le organizzazioni non hanno ancora capito, fino in fondo, che per capitalizzare fiducia, devono investire nei propri collaboratori, dipendenti, dirigenti e rappresentanti politici, per renderli più fedeli e affidabili. Quando lo capiranno, le vedremo stare accanto ai loro agenti pubblici in ogni momento, per aiutarli a sostenere il pesante fardello dell’integrità.


Il re si diverte (in francese: Le roi s’amuse) è un dramma in cinque atti dello scrittore francese Victor Hugo, portato al debutto a Parigi il 22 novembre 1832 prima di essere censurato e bandito dalle scene teatrali. Il dramma è noto soprattutto per essere stato musicato da Giuseppe Verdi nell’opera Rigoletto (1851).


[1]  Sanna Marin commossa dopo le polemiche per le feste: – Anche io a volte desidero divertirmi“, Repubblica, sito online, 24 agosto 2022. https://video.repubblica.it/mondo/sanna-marin-commossa-dopo-le-polemiche-per-le-feste-anche-io-a-volte-desidero-divertirmi/423755/424710

[2] DPR n. 62/2013, art. 11 – Comportamento in servizio.

[3] Massimo Di Rienzo, Andrea Ferrarini, La geometria delle regole, Azienditalia, 2022.

[4] Costituzione della Repubblica Italiana, art. 54, secondo comma: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle  con  disciplina  ed  onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.

[5] Come i nostri dotti lettori certamente sapranno, mignatta è altro nome della sanguisuga comune (Hirudo medicinalis). Il termine viene anche utilizzato per indicare un usuraio. Nel linguaggio militare, la mignatta è anche il nome convenzionale di uno speciale mezzo d’assalto semi subacqueo, ideato durante la Prima guerra mondiale, costituito da una specie di grosso siluro, propulso ad aria compressa, manovrabile a mano da due sommozzatori e munito di teste esplosive elettromagnetiche che venivano fatte aderire agli scafi metallici nemici.

[6]Sanremo, mezzo Comune assenteista. Timbravano il cartellino in mutande”, Quotidiano Nazionale, 23 ottobre 2015 (https://www.quotidiano.net/cronaca/sanremo-cartellino-furbetti-1.1416023 )

[7] Più nel dettaglio, dei 42 presunti “furbetti del cartellino”:

· 16 hanno scelto il patteggiamento nel 2020, con pene comprese fra 8 mesi e 1 anno e 7 mesi;

· 16, invece, sono stati rinviati a giudizio e, di questi, 15 sono stati condannati in primo grado nel 2021;

· 10, infine, sono stati assolti nel 2020 perché il fatto non sussiste. Nel 2022 la Corte di Appello di Genova ha confermato 8 di queste assoluzioni.

[8] “Sanremo, processo ai ‘furbetti del cartellino’, i giudici d’Appello: “Condotte discutibili, ma non sono reati”, Sanremo News, 20 aprile 2022. (https://www.sanremonews.it/2022/04/20/leggi-notizia/argomenti/cronaca/articolo/sanremo-processo-ai-furbetti-del-cartellino-i-giudici-dappello-condotte-discutibili-ma-non-s.html )

[9] Vigile assenteista che timbrava in mutande: “Sono un capro espiatorio”, Today, 25 gennaio 2016 (https://www.today.it/rassegna/vigile-mutande-sanremo.html ).

[10] Ibidem

[11] Sanremo, il vigile che timbrava in mutande: “Mi vestivo in orario di lavoro, era scorretto ma non era truffa”, Repubblica, 21 gennaio 2020, (https://www.repubblica.it/cronaca/2020/01/21/news/vigile_in_mutande-246284895/ )

[12] Abbiamo analizzato nello specifico l’obbligo di astensione nell’articolo La cuoca di Giulio Cesare, pubblicato in questa rubrica.

[13] Per esempio, un dipendente in conflitto di interessi potenziale non è ancora coinvolto in nessun procedimento che coinvolga interessi di soggetti con cui è in relazione: in questo specifico caso, l’astensione dal procedimento non è applicabile ed è unicamente rilevante il comportamento adottato nel dipendente nella sua sfera privata.

[14] Come di consueto, le nostre integrazioni sono evidenziate in grassetto.

[15] Per approfondire questi argomenti, ancora poco conosciuti, rimandiamo al nostro e-book: L’etica delle relazioni dell’Agente pubblico, IPSOA, 2020 (https://shop.wki.it/ebook/ebook-etica-delle-relazioni-dell-agente-pubblico-s720632/)

[16] Lavinia Scolari, La fides e la promessa: forme di reciprocità tra dèi e uomini nella riscrittura di Ovidio,  I QUADERNI DEL RAMO D’ORO ON-LINE, n. 8, 2016. (https://iris.unipa.it/bitstream/10447/240626/5/Scolari_La_fides_e_la_promessa.pdf)

[17] Dizionario etimologico online, (https://www.etimo.it/?term=fede&find=Cerca)

[18] La fede è il legame tra la divinità e l’uomo e anche in latino fides poteva riferirsi alla sfera

[19] In particolare, gli artt. 1175, 1337, 1366 e 1375 del Codice civile fanno riferimento alla buona fede, intesa come obbligo di reciproca lealtà,  in tutte le fasi del rapporto contrattuale, a partire dal procedimento di formazione del contratto sino alla sua esecuzione.

[20] In questa sede assumiamo il punto di vista del singolo cittadino e quindi non separiamo nettamente la collettività (Principale delegante del sistema pubblico) dai singoli destinatari.. In un certo senso, la collettività è l’insieme dei potenziali destinatari di una pubblica amministrazione, mentre i destinatari sono quella parte di collettività che entra effettivamente in relazione con la pubblica amministrazione. Per il singolo individuo, pensarsi collettività o destinatario è una questione di punti di vista. Svilupperemo e spiegheremo meglio questa idea in qualche futuro articolo.