UN’ASSICELLA DI LEGNO CHE CHIAMIAMO IMPARZIALITÀ

Da più di trent’anni la pubblica amministrazione vive un processo più o meno lineare di “aziendalizzazione” con il trasferimento di prassi, logiche e soluzioni che non si sono rivelate efficaci. Ovviamente la narrazione ufficiale attribuisce alle resistenze interne alla PA il fallimento di gran parte di queste riforme.
Noi pensiamo, invece, che le ragioni siano da ricercare altrove. Il settore pubblico ha molte cose che non possono essere semplicemente rimosse per far funzionare meglio la macchina. Una di queste è di certo l’IMPARZIALITA’, un’idea, un concetto che si dà spesso per scontato.

L’imparzialità garantisce un equilibrio tra gli interessi in gioco e agisce come fattore stabilizzante dei sistemi pubblici: in assenza di imparzialità, il sistema pubblico finirebbe per implodere sotto la spinta degli interessi particolari.

Questo ragionamento sembra funzionare. Ma c’è un particolare che stona… E’ astratto e non coglie il fatto che un meccanismo regolatore, proprio perché non è un interesse, non entra nella carne e nel sangue dei decisori pubblici. L’imparzialità, cioè, non viene percepita con una intensità elevata dai soggetti che operano all’interno della pubblica amministrazione, tantomeno dai soggetti esterni. L’imparzialità sembra essere figlia di nessuno: è qualcosa che esiste e che permea di sé tutto il funzionamento del sistema pubblico, ma che nessuno sembra percepire con la dovuta intensità.
In questo articolo scopriamo il volto disumano dell’imparzialità, la sua imprescindibile centralità nel settore pubblico e anche il motivo per cui è così poco praticata, seppur molto invocata.

Questo articolo è apparso sulla Rivista Azienditalia Enti Locali, Mensile per gli enti locali e le loro aziende, nel 2021, nell’ambito dello Spazio Etico, viaggio nel mondo del conflitto di interessi.



INTRODUZIONE – Una figlia di nessuno.

“Che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci, non ci siamo intesi affatto.” Luigi Pirandello – “Uno, Nessuno, Centomila”

Che cosa è l’imparzialità?

A volte la percepiamo come un “meccanismo di funzionamento” delle organizzazioni pubbliche. In questo senso l’imparzialità è una regola, nel senso etimologico del termine “regula” che veniva utilizzato dagli antichi romani. Si trattava di un’assicella di legno diritta, che serviva a tirare le linee. Quindi l’imparzialità sembra essere un “sistema regolatore” del funzionamento del settore pubblico. A questo fa riferimento esplicito la Costituzione italiana quando afferma che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” (articolo 97).

A volte, però, l’imparzialità si manifesta come un valore, un principio di riferimento dell’etica pubblica: nei Codici etici e di condotta il principio di imparzialità viene inserito nei primi articoli, dove si enunciano, appunto, principi e valori di riferimento.

A volte l’imparzialità sembra essere invece una qualità dell’agente o del decisore pubblico. Questa interpretazione sembra la più fallace, dal momento che l’imparzialità è una qualità dell’organizzazione (come ben espresso in Costituzione quando si parla degli “uffici pubblici”) e delle decisioni che essa esprime, mentre una qualità dell’agente necessaria affinché l’azione amministrativa sia “imparziale” potrebbe essere l’indipendenza e la terzietà di giudizio.

L’imparzialità, infine, sembra essere anche un interesse primario che Agenti e Principali delegati devono promuovere, ma che può essere minacciato quando si determinano situazioni di conflitto di interessi. Un interesse primario dal contenuto molto generale e generico, ma sufficientemente elastico da poter essere declinato in diversi modi e generare altri interessi primari più specifici: la tutela della libera concorrenza, la promozione delle pari opportunità nei percorsi di carriera, la garanzia di accesso universale a determinati servizi pubblici, ecc… 

Proprio come gli elettroni e i fotoni, che si manifestano come onde o particelle, a seconda del tipo di strumento utilizzato per la misurazione, anche l’imparzialità assume diversi volti, a seconda di come viene osservata

Proviamo ora a semplificare e ad uniformare tutti questi punti di vista. Gli interessi sono strategie vantaggiose, cioè strumenti che sono utili a qualcosa, ma alcuni interessi sono talmente intensi e diffusi da diventare un principio di riferimento che orienta i comportamenti. Per esempio, il diritto alla salute è un interesse collettivo talmente rilevante e talmente condiviso, che possiamo dire che è giusto che una organizzazione pubblica, o uno Stato, si impegni a promuovere tale diritto. Se questo discorso valesse anche per l’imparzialità, allora potremmo condensare i concetti di sistema di funzionamento, interesse e valore: è giusto che i procedimenti amministrativi e le decisioni che ne scaturiscono abbiano la qualità di essere imparziali perché questo serve a qualcosa. Ma a cosa esattamente?

In generale, l’imparzialità serve a mantenere gli interessi in gioco egualmente distanti dal centro del processo (decisionale). Si parla di “equidistanza DEGLI interessi” oppure, se si tratta di valutare la posizione dell’agente pubblico, diremmo “equidistante DAGLI interessi”.

L’etica pubblica è piena di condotte che devono assicurare tale equidistanza. Si pensi al divieto per un agente pubblico di orientare un utente ad uno specifico operatore privato. Si può, anzi si deve, consentire una scelta informata tra diversi erogatori pubblici e privati, ma non si può individuare un singolo operatore privato e segnalarlo all’utente perché questa condotta peccherebbe di imparzialità, dal momento che si mostrerebbe di non essere in una posizione di “equidistanza DAGLI interessi”.

La modalità di approvvigionamento in ambito pubblico sembrerebbe alquanto bizzarra ad un privato cittadino. Perché elaborare un bando di gara, formare una Commissione di valutazione, eseguire una serie a volte faticosa di procedure, se non per assumere (e dimostrare di aver assunto) una decisione imparziale, cioè, presa in equidistanza dagli interessi in gioco?

Anche l’astensione in caso di conflitto di interessi è una condotta necessaria a garantire imparzialità del processo decisionale, così come il divieto di accettare doni, regali o altre utilità che mostrerebbe una “vicinanza” di interessi inammissibile.

Questo ragionamento sembra funzionare. Ma c’è un particolare che stona… Come abbiamo sottolineato in un articolo precedente, l’imparzialità non viene percepita con una intensità elevata dai soggetti che operano all’interno della pubblica amministrazione (Agenti e Principali delegati) e dai soggetti esterni (Destinatari). A differenza di altri interessi primari (per esempio la promozione di diritti, come la salute), l’imparzialità sembra essere figlia di nessuno: è qualcosa che esiste e che permea di sé tutto il funzionamento del sistema pubblico, ma che nessuno sembra percepire con la dovuta intensità.

L’imparzialità è una, nessuna e centomila:

  • una perché è l’unico vero meccanismo di regolazione del sistema pubblico;
  • nessuna perché non è un interesse che soddisfa bisogni individuali;
  • centomila, perché, non essendo riferibile ai singoli individui, deve essere in qualche modo riferita alla collettività.

IL PROBLEMA – Il volto disumano dell’imparzialità.

“Io devo stare attento a non amare i miei genitori o mio figlio, e a non obbedire a questo amore, in modo tale da violare un bene pubblico importante e fondamentale”.    William Godwin – “Pensieri”.

Il concetto di imparzialità viene da lontano: nel suo dialogo La Repubblica, Platone teorizzava l’eliminazione di ogni relazione familiare ed economica per i guardiani della Città, così da assicurare che essi fossero in tutto e per tutto fedeli al proprio ruolo, senza alcuna interferenza proveniente da interessi della sfera privata. L’imparzialità nel pensiero di Platone è tuttavia ancora considerata una qualità personale dell’Agente e non ha ancora assunto il ruolo di meccanismo di regolazione dei processi decisionali.

L’imparzialità che conosciamo oggi e che regola il sistema pubblico deriva dalle teorie dell’utilitarismo sociale di Jeremy Bentham e di John Stuart Mill che nel diciottesimo secolo immaginarono un mondo dove le decisioni si distinguevano in giuste o sbagliate sulla base dell’utilità che esse generavano per il maggior numero di persone. Il concetto di utilità corrispondeva a “felicità” anche se questa parola ha reso la vita difficile agli utilitaristi. All’epoca si trattava di una vera rivoluzione: nessun dogma di fede o di altra natura deve guidare le nostre decisioni, che devono fare riferimento solo alle conseguenze (per questo si chiamò anche “consequenzialismo”) delle azioni.

Cosa c’entra tutto questo con l’imparzialità? Moltissimo a dire il vero. Secondo l’utilitarismo, infatti, un Agente, quando deve prendere una decisione, deve considerare quale scenario garantirà maggiore utilità o felicità ad un numero più elevato possibile di persone. Questo vuol dire che il suo interesse personale, che non a caso noi chiamiamo ora “interesse secondario”, deve essere valutato come “irrilevante”. Di conseguenza, la decisione dell’Agente “utilitarista” è giusta se è imparziale, cioè se esclude gli interessi e i desideri dell’individuo. Questa visione è stata chiaramente espressa da William Godwin nel saggio La Giustizia Politica[2], nelle pagine in cui, parlando della Giustizia, l’autore paragona l’Arcivescovo Fénelon al suo cameriere.

Chi era l’Arcivescovo Fénelon e perché il suo nome è inevitabilmente associato all’imparzialità? François de Salignac de La Mothe-Fénelon, arcivescovo di Cambrai, è stato un prelato e intellettuale vissuto in Francia ai tempi di Luigi XIV. Oltre ad essere un noto benefattore (si occupò attivamente di garantire un’istruzione gratuita ai figli dei poveri e nel 1709, durante una drammatica carestia, si privò di tutto pur di sfamare l’esercito che era accampato nella città), Fénelon è anche autore della Avventure di Telemaco, opera in cui espresse idee anti-assolutiste, che ebbero una profonda influenza su Montesquieu e altri pensatori illuministi[3].

Adesso che conosciamo meglio l’Arcivescovo Fénelon, possiamo leggere la proposta di Godwin e comprenderne la portata, ma anche gli evidenti limiti:

La giustizia è una regola di condotta che ha origine nella connessione tra un essere senziente e l’altro. Una massima esauriente sull’argomento è che «dovremmo amare i nostri vicini come noi stessi». Ma questa massima, nonostante possegga grandi meriti come principio popolare, non è formulata con la precisione dell’accuratezza filosofica. In senso lato e generale io e il mio vicino siamo entrambi uomini, e di conseguenza abbiamo diritto a eguale attenzione. Ma in realtà è probabile che uno di noi due sia un essere più meritevole e importante dell’altro. Un uomo è più meritevole di una bestia perché, essendo dotato di facoltà più alte, è capace di una felicità più genuina e raffinata. Analogamente, l’illustre arcivescovo di Cambrai Fénelon era più meritevole del suo cameriere; pochi di noi esiterebbero a dire, se il suo palazzo fosse in fiamme e solo uno dei due potesse essere salvato, quale dei due dovrebbe essere scelto. […] Salvando Fénelon, supponiamo pure nel momento in cui egli stia concependo il progetto del suo immortale “Telemaco”, io avrei contribuito al benessere di quelle migliaia di persone che leggendo la sua opera si sono salvate da qualche errore, da qualche vizio e dalla conseguente infelicità. […] Supponiamo che il cameriere fosse mio fratello, mio padre o il mio benefattore. Ciò non muterebbe la verità di quella proposizione. La vita di Fénelon avrebbe comunque maggior valore di quella del cameriere; e la giustizia, la pura e non adulterata giustizia, richiederebbe comunque di salvare la vita di maggior valore. La giustizia mi insegna a salvare la vita di Fénelon a spese dell’altra persona. Che magia vi è mai nel termine «mio», tale da giustificare il capovolgimento delle decisioni della giustizia imparziale?

La Giustizia Imparziale, per come ce la descrive Godwin, ha qualcosa di disumano, nella misura in cui nega che la vita abbia un valore in sé e riduce il valore di un uomo ad una funzione di utilità presunta. Ed è proprio questo il problema: siamo tutti d’accordo che il sistema pubblico deve essere imparziale, ma in fin dei conti l’imparzialità sembra essere un concetto che viene da un altro mondo e che ci obbliga ad adottare comportamenti contrari alla nostra natura.

Veramente crediamo che, in caso di incendio, dovrebbe essere salvato l’arcivescovo, dal momento che il suo contributo per il bene comune è più rilevante rispetto a quello dal suo cameriere? Forse sì, se non includiamo nel processo decisionale gli interessi e le aspettative veicolate dalle relazioni umane …

IL CASO – Chi ha ucciso Lord Fenelon?

Un amore felice. È normale? È serio? È utile? Che se ne fa il mondo di due esseri che non vedono il mondo?   Wisława Szymborska – Un amore felice

1 – Cambrai, Francia. Anno 1711

Le ultime fiamme sulla casa dell’Arcivescovo Fénelon si stavano spegnendo alle prime luci dell’alba, quando l’Ispettore della A.H.M. (Assurance d’Habitation Malheur), scese dalla carrozza. Non era stato facile trovare un vetturino disponibile a portarlo lì a quell’ora del mattino: all’Ispettore questo servizio era costato un occhio della testa. Ma lui era abituato a questo genere di cose: spendeva in spese di viaggio, vitto e alloggio metà del suo stipendio. Questo inconveniente faceva ormai parte del suo lavoro.

Lavorare come ispettore assicurativo per la A.H.M. (una delle principali Società di Assicurazioni di Cambrai) era un impiego infame: i rimborsi arrivavano sempre con mesi di ritardo. Ma durante i suoi viaggi in ogni angolo del Regno di Francia, l’Ispettore Fabien Flamboyant, specializzato in perizie sugli incendi, poteva trovare il tempo per gustare le prelibate pietanze della cucina regionale: potage aux herbes, boeuf roti à la moutarde, rognons de veau e spettacolari tartes aux pommes.  

Perso nei suoi pensieri, l’uomo si diresse verso una squadra di pompieri intenta a spegnere le ultime fiamme con grandi secchiate d’acqua, incurante della fuliggine che gli sporcava gli abiti:

‒ Mi chiamo Fabien Flamboyant e sono ispettore assicurativo della A.H.M.  L’arcivescovo Fénelon un anno fa ha stipulato con la mia compagnia di assicurazioni una polizza contro gli incendi. Avrei quindi bisogno di parlare con l’arcivescovo e di avere alcune informazioni circa la dinamica dell’incendio!

Uno dei pompieri, tutto rosso in viso, lo guardò con fare beffardo e prima di rispondere si lavò il volto con l’acqua contenuta in un secchio

‒  Monsieur Flamboyant … Non credo che troverete così facilmente l’Arcivescovo Fénelon … E’ ridotto in cenere tra le macerie della sua casa … La polizia e il medico legale stanno facendo dei rilievi tra le macerie. Se volete, potete chiedere a loro!

Un brivido corse lungo la schiena dell’Ispettore. Gli incendi erano all’ordine del giorno, ma la morte di un personaggio così in vista sarebbe stato un bel problema per la società assicurativa. Quanto poteva valere la vita dell’Arcivescovo Fénelon, un noto benefattore che tanto si era prodigato per i poveri della città? Le clausole della polizza parlavano chiaro: in caso di morte in un incendio, la A.H.M. si impegnava a versare un vitalizio ai parenti più prossimi dell’Arcivescovo.

Nella mente di Fabien Flamboyant tutto fu improvvisamente chiaro: nell’interesse dell’Assicurazione, doveva fare approfondite indagini e scoprire se l’incendio aveva avuto una origine dolosa. Se qualcuno, intenzionalmente, avesse voluto uccidere l’Arcivescovo Fénelon, costui sarebbe stato chiamato a risarcire tutti i danni e a versare l’oneroso vitalizio ai parenti. In subordine, se avesse dimostrato che l’incendio era stato causato dall’imperizia dell’arcivescovo o della sua servitù, allora la A.H.M avrebbe potuto accusare il contraente di imperizia e non versare alcunché.

L’Ispettore andò dalla polizia e dal medico legale. Ma non ottenne molte informazioni, a parte uno schizzo con il lapis della planimetria della casa, l’elenco delle persone presenti al momento dell’incendio e l’ovvia informazione che Fénelon era morto soffocato dal fumo, prima di essere divorato, come un eretico, dalle fiamme. Mentre sconsolato stava per tornare alla sua carrozza, vide un uomo possente, vestito con la divisa dei pompieri, correre verso di lui. Aveva la barba e i capelli rossi, dello stesso colore del fuoco che per mestiere spegneva ogni giorno:

‒  Sono il Comandante Antoine Amoureux, e dirigo la squadra antincendi di Cambrai. I miei uomini mi hanno detto che Voi siete dell’Assicurazione e avete bisogno di informazioni sull’incendio di questa notte. Sono a vostra disposizione!

‒  Monsieur, siete per caso riuscito a ricostruire la dinamica dell’incidente? Mi interesserebbe sapere cosa può avere causato un fuoco così devastante!

Il Comandante Antoine Amoureux socchiuse gli occhi, come per lo sforzo di ricordare. Era evidentemente stremato, dopo le lunghe ore passate a lottare contro le fiamme. Poi parlò lentamente:

‒  Quando sono entrato dal retro della casa, per mettere in salvo la servitù, ho notato che la camera da letto dell’Arcivescovo Fénelon era invasa dalle fiamme. Credo che le braci di un camino, lasciato incustodito, abbiano fatto incendiare i tappeti e gli arazzi della camera da letto. Da lì, l’incendio si è propagato nel resto della casa, distruggendola completamente.

Una buona notizia, pensò Flamboyant. E avendo capito che il Comandante poteva essere una miniera di informazioni, decise di giocare la carta della Brasserie Routine:

‒  Conosco una Brasserie, qui vicino, che serve un ottimo caffè e dei croissants au beurre eccellenti. Volete venire a fare colazione con me? 

2 – La colazione delle domande

Davanti ad una tazza di caffè fumante, l’Ispettore Flamboyant aveva ancora molte domande da porre al Comandante di vigili del fuoco. Aveva appoggiato sul tavolino la planimetria della casa e un foglio con un elenco di nomi:

‒  Monsieur Antoine, prima mi avete detto che siete entrati dalla porta sul retro. Ma non sarebbe stato più comodo entrare dalla porta principale? Da lì sareste arrivati direttamente alla camera dell’arcivescovo Fénelon.

‒  La porta principale purtroppo era inaccessibile, perché completamente avvolta dalle fiamme. Per non mettere a rischio i miei uomini, ho preferito fare il giro più lungo, dalla porta di dietro.

L’ispettore prese l’elenco di nomi, mangiando un croissant au beurre. Le briciole caddero sul foglio, ma lui le buttò incurante sul pavimento della Brasserie Routine:

‒  Siete riusciti a portare in salvo tutta la servitù?

‒  Sì! E’ stato necessario, per sgomberare la casa… Quando abbiamo aperto la porta sul retro, ci siamo trovati davanti cinque persone terrorizzate, che chiedevano aiuto e che non ci lasciavano passare …   

‒  Avete identificato la servitù e chiamato i soccorsi …

‒  Esattamente … alcuni di loro erano feriti o intossicati …

‒  Però avete dichiarato alla Polizia che quattro persone sono state portate all’Ospedale di Cambrai. Una sola persona, invece, una donna, è stata portata all’Ospedale di Amiens, a quasi cento chilometri da qui … Avete capito perché?

Il Comandante Antoine Amoureux sorseggiò il suo caffè pensieroso, prima di rispondere:

‒  Non saprei. Credo che i soccorritori abbiano portato la servitù in ospedali diversi in base alla gravità delle condizioni. La donna che è andata all’Ospedale di Amiens, se non ricordo male, aveva ustioni su tutto il corpo e so che lì sono specializzati nella cura delle ferite da fuoco.

‒  La donna si chiama Margot Jolie e faceva la cameriera. “Mademoiselle” Jolie, suppongo, perché non avete indicato il nome di suo marito.

Probabilmente, tutte quelle domande avevano cominciato ad infastidire Antoine Amoureux, che era visibilmente stanco e desideroso soltanto di andare a dormire:

‒  Monsieur Flamboyant, cercate di comprendere: eravamo nel bel mezzo di un incendio indomabile  ed i miei uomini hanno avuto appena il tempo di appuntarsi i nomi delle servitù, per poterli poi comunicare alla polizia. La cameriera ha detto di chiamarsi Margot Jolie e nessuno di noi ha avuto il tempo di ricostruire il suo albero genealogico! Se non le dispiace, adesso devo tornare a casa: i miei figli non hanno notizie di me da parecchie ore e saranno certamente preoccupati.

L’Ispettore guardò il suo interlocutore uscire dalla Brasserie e ordinò un altro caffè. Mentre lo beveva, si chiese perché Margot Jolie non aveva un marito e perché era finita così lontano da Cambrai.

3. Per te lascerei morire il mondo

Pioveva da ore e le strade erano ridotte a fiumi di fango. La carrozza ci mise più del previsto, per arrivare ad Amiens. Giunto davanti all’Ospedale, Fabien Flamboyant realizzò di avere fame e si recò in un’osteria a mangiare le rinomate andouillettes: salsicce confezionate con pregiate frattaglie bovine tritate, pane raffermo, uova, aglio, cipolla ed erbe. Dopo aver consumato questo pranzo leggero, tornò sui suoi passi e si recò alla portineria dell’ospedale, dove chiese informazioni per il padiglione in cui si curavano gli ustionati. Attraversò i chiostri silenziosi del nosocomio e i corridoi disseminati di quadri dei santi. E alla fine bussò ad una porta, che venne subito aperta da una suora vestita di nero.

‒  Margot Jolie è ancora ricoverata qui?

‒  Voi chi siete?

‒ Sono un amico di suo marito. Passavo di qui e ho pensato di passare a salutarla

‒  Potete entrare nella sua stanza. Ma non svegliatela. E’ ancora molto debole, anche se le ferite si stanno rimarginando. Povera donna! Aveva tutte le mani bruciate, quando è arrivata qui!

Margot Jolie giaceva in un letto che sembrava troppo grande per lei. I lunghi capelli biondi, sciolti, si spargevano sul cuscino come spighe di grano. Dormiva e il suo viso, davvero molto bello, sembrava sereno. Forse stava sognando

Adesso che era arrivato lì, l’Ispettore Flamboyant si chiese perché aveva deciso di vedere di persona la cameriera di Fénelon: conoscerla era irrilevante, per gli interessi della Società Assicurativa. Certo era bella, bellissima, ma questo non avrebbe influito in alcun modo sulla ricostruzione dei fatti.

Era talmente assorto nei suoi pensieri, che non si accorse che Margot Jolie aveva aperto gli occhi: erano occhi grandi e che sembravano profondi come il mare.

‒  Chi siete? vi manda Antoine? Sono giorni che non lo vedo … da quando mi ha fatta ricoverare qui, dopo l’incendio.

‒  Vostro marito vi saluta Madame. E’ molto impegnato, ma presto verrà a trovarvi. Ora devo andare …

Fabien Flamboyant pensò che per quegli occhi anche lui avrebbe lasciato morire il mondo intero. 

L’ANALISI – Il gene egoista: costi e benefici della parzialità

“Gli esseri umani sono macchine da sopravvivenza, robot semoventi programmati ciecamente per conservare quelle molecole egoiste note col nome di geni”   Richard Dawkins – “Il Gene egoista”

Dunque, il Comandante dei Vigili del Fuoco era il marito della cameriera dell’arcivescovo Fenelon. Questo cambia qualcosa? Per Godwin e gli utilitaristi non cambia nulla: Antoine Amoureux  deve escludere qualunque interesse o desiderio affinché la sua decisione sia assolutamente imparziale. Solo così verrà massimizzato l’interesse al raggiungimento di una più diffusa felicità.

Ma per i “non utilitaristi” (e probabilmente per la maggior parte degli esseri umani) cambia davvero molto. Davanti alla casa in fiamme, Antoine Amoureux vive un tragico dilemma: l’interesse primario alla salvaguardia di un protagonista della scena pubblica si contrappone e confligge con l’interesse alla salvaguardia della sua stessa famiglia.

Sappiamo come è andata a finire: il Comandante è entrato dal retro, per salvare innanzitutto sua moglie (insieme al resto della servitù) e poi ha chiamato i soccorritori, perché sua moglie era gravemente ferita. E non ha avuto tempo per salvare anche Fénelon.

Probabilmente, se fossimo stati al suo fianco, avremmo consigliato ad Antoine Amoureux di astenersi, di affidare ad un altro il comando della squadra antincendio, perché i suoi interessi secondari erano entrati in gioco e avrebbero rischiato di compromettere l’imparzialità della sua decisione, e, quindi, di far prevalere l’utilità personale a scapito della utilità collettiva.

Se l’esempio di Antoine Amoureux vi sembra un po’ astruso, considerate ora il caso di un servizio pubblico che è stato gestito da un operatore economico privato e che un’amministrazione deve affidare nuovamente perché sono scaduti i termini contrattuali. Il servizio, nella percezione dell’Agente pubblico che deve provvedere al nuovo affidamento, è stato ben erogato dall’operatore economico e non esiste alcuna ragione per dover cambiare. Tuttavia, l’Agente pubblico deve decidere se avviare una procedura di gara oppure, ad esempio, prorogare l’affidamento. Per un agente pubblico che si ispira all’utilitarismo non ci sarebbero dubbi: avviare una gara con evidenza pubblica mette in competizione i privati che hanno interesse a promuovere un servizio di qualità ad un costo competitivo, generando maggiore utilità per i cittadini. Tuttavia, ad una persona normale sembrerebbe strano dover sacrificare una relazione ben avviata e che produce un servizio percepito come “di qualità” sull’altare dell’imparzialità!

Ancora una volta, per salvaguardare l’imparzialità di una decisione, si chiede agli agenti e alle organizzazioni pubbliche di comportarsi contro-natura.

Nel fondamentale contributo del croato Tomislav Bracanovic[4], che ha destato la nostra attenzione su ciò che ruota intorno all’imparzialità, viene riportato uno scenario che aiuta a comprendere meglio questo interessante aspetto. Peter Singer illustra il caso delle donazioni alle agenzie che si occupano di sostegno ai Paesi in via di sviluppo. Singer afferma che se dovessimo controbilanciare, in termini utilitaristici, la felicità che verrebbe generata dal donare alle agenzie in contrapposizione, ad esempio, con comprare una automobile alla propria figlia per andare all’Università, non avremmo dubbi su cosa scegliere. La prima scelta, infatti, permetterebbe di non far morire di fame i bambini di una determinata area depressa, mentre la seconda si risolve nella “comodità” di un unico individuo. Ma noi non nasciamo con lo spirito dell’imparzialità in testa. Contrariamente siamo più propensi a soddisfare una utilità sicuramente minore ma affettivamente rilevante. Perciò è più probabile, come succede nella realtà, che quei soldi finiranno nell’acquisto dell’automobile per nostra figlia, con grande scandalo degli utilitaristi, che potrebbero spingersi ad accusarci di essere degli assassini (e qualche volta succede davvero).

Ebbene, se è difficile mantenere questo livello di percezione dell’utilità generale in decisioni della sfera privata, lo è ancora di più quando diventiamo agenti pubblici. In effetti, ci viene chiesto di considerare le relazioni affettive, familiari, economiche e gli interessi che ne scaturiscono del tutto irrilevanti. Oppure, se non ci riusciamo o se gli interessi in questione minacciano l’imparzialità della decisione, ci viene chiesto di farci da parte. A ben vedere, l’agente pubblico si trova in una posizione alquanto peculiare.

Certo non chiederemmo all’agente pubblico di tenere una condotta così “contro-natura” senza una buona ragione. In effetti, un sistema di regole così pervasivo può essere giustificato se, almeno in qualche modo, noi avvaloriamo alcune delle tesi dell’utilitarismo sociale e se impariamo a conoscere le implicazioni delle scelte pubbliche “parziali”. Ma tali conseguenze, in ambito pubblico, emergono nel medio-lungo periodo e difficilmente possono essere tenute in considerazione Agente pubblico, nel momento in cui prende una decisione. Nel momento della decisione, infatti, saranno più evidenti le esternalità positive immediate, che sono sempre associate alle scelte parziali. E’ per questo che l’ordinamento cerca di cautelarsi con regole piuttosto stringenti.

In assenza di imparzialità potrebbero innescarsi pericolosi fenomeni come, ad esempio, la selezione avversa che facilita l’instaurarsi di monopoli e cartelli nell’economia di uno Stato. Nella selezione avversa un agente pubblico modifica le condizioni di concorrenzialità di una parte del settore privato locale per determinare un vantaggio a favore di un soggetto o di un gruppo di soggetti (ai quali può essa stessa appartenere o meno), provocando una selezione dei concorrenti, alcuni dei quali si troveranno in una posizione di vantaggio ris+petto agli altri. Tale selezione sarà sfavorevole in quanto resteranno in piedi solo i concorrenti disposti a violare le regole (monopolio), oppure, gli altri concorrenti inizieranno ad assumere le stesse condotte dei concorrenti favoriti (cartelli).

Per una maggiore comprensione di quanto ci sembra innaturale scegliere in maniera imparziale, riprendiamo il caso esposto prima del servizio pubblico gestito da un operatore economico privato e che un’amministrazione deve affidare nuovamente perché sono scaduti i termini contrattuali. L’interesse secondario dell’operatore economico affidatario è di mantenere e stabilizzare il proprio rapporto con l’amministrazione così da ridurre il rischio di impresa. L’agente pubblico ha un interesse secondario nei confronti dell’operatore economico: si è trovato bene a lavorare insieme e per lui cambiare significa rischiare di trovare un operatore peggiore. Questa convergenza di interessi è potente e in assenza di una forte percezione delle conseguenze di una scelta parziale, rischia di attivare un bias cognitivo, cioè conoscere quale operatore economico eroga il miglior servizio, non avendo alcuna conoscenza degli altri.

Nel breve periodo, quindi, una condotta “parziale” dell’agente pubblico (la scelta, ad esempio, di prorogare l’affidamento all’operatore economico) generata da una convergenza di interessi secondari sembra essere premiante. Ma nel medio-lungo periodo, l’aver modificato le condizioni di concorrenzialità di quel mercato (l’agente pubblico non ha scelto in base alla migliore qualità del servizio o alla economicità del prezzo ma in base a proprie valutazioni del tutto personali e influenzate dalla relazione che si era instaurata con l’operatore economico) può determinare una selezione dei concorrenti tale da escludere alcuni competitor dal mercato. Questa dinamica, sempre nel medio-lungo periodo, distorce il mercato, fino ad arrivare a situazioni di monopolio o alla generazione di cartelli. In tali condizioni l’operatore privato non avrà più alcun interesse a fornire un servizio di qualità o economicamente vantaggioso dal momento che non si dovrà confrontare con la concorrenza. E questo genera spreco di risorse e abbassamento della qualità dei servizi.

Abbiamo analizzato una situazione alquanto idilliaca, in cui l’agente pubblico favorisce l’operatore economico privato in quanto ritiene che abbia svolto un buon lavoro, ma occorre considerare che la stragrande maggioranza di decisioni parziali assunte da agenti pubblici si basa su collegamenti di interessi diretti o indiretti che generano interferenze che nulla hanno a che fare con la qualità del servizio.

La tendenza dell’uomo ad essere parziale e altruista ha origini biologiche ed ha avuto un ruolo importante nell’evoluzione della specie umana. Questa affermazione potrebbe sembrare paradossale, finché si fa riferimento alla teoria dell’evoluzione concepita, originariamente, da Charles Darwin[5]: come è concepibile, infatti, che in un ambiente spietato come l’evoluzione della specie in cui il più forte ed adattabile sopravvive e il più debole si estingue, abbiano trovato spazio comportamenti caratterizzati da parzialità o “altruismo”? La risposta a questa domanda è stata trovata dalla Teoria del Gene egoista[6], una serie di studi e di ricerche, che hanno riletto l’evoluzione in termini di sopravvivenza dei geni, e non degli individui. Secondo questo indirizzo di ricerca, alcuni comportamenti svantaggiosi per l’individuo, sono in realtà utili per la trasmissione del patrimonio genetico e quindi rappresentano un vantaggio dal punto di visto evolutivo. Uno degli effetti dei geni egoisti sarebbe proprio l’altruismo.

William Hamilton, nella sua teoria della selezione parentale, ha ipotizzato, per esempio, che l’altruismo si sia generato in piccoli gruppi di individui geneticamente collegati. Secondo questa teoria, è opportuno favorire i nostri simili (da un punto di vista genetico) dal momento che portano una parte significativa del nostro corredo genetico. Robert Trivers fornisce una seconda spiegazione: è opportuno essere altruisti nei confronti di chi si mostra altrettanto altruista, perché in questo modo si genera una comunità di individui che operando in questi termini di reciprocità possono adattarsi meglio e prevalere rispetto a coloro che non hanno il medesimo atteggiamento.

Queste spiegazioni tentano di gettare luce su una evidenza comune a tutti: le persone tendono a favorire individui nei confronti dei quali esprimono un legame parentale, oppure un legame di reciprocità[7] , oppure membri del proprio gruppo sociale. In qualche modo sembrerebbe che, dal punto di vista evoluzionistico, abbia pagato in termini di adattamento e sopravvivenza l’essersi mostrati parziali nei confronti di coloro che appartengono ai gruppi di individui appena citati.

Dunque, la scienza e il senso comune ci impongono di riconsiderare la nostra “attitudine” ad essere imparziali. Per questo c’è bisogno di un forte “sistema di regole” che si contrappone a questo diffuso sentimento di parzialità.

Siamo individui che esprimono un certo grado di parzialità nelle decisioni quando sono implicate relazioni di un certo tipo, cioè, entro un certo grado di socialità e che generano interessi. E questo deriva dal fatto che ci siamo adattati meglio comportandoci in questa maniera.

Ci viene richiesto di fare un passaggio ulteriore per adattarci alla complessità delle società moderne. Cioè, considerare che il nostro “gruppo sociale” non sia più rappresentato solo dagli individui con cui siamo in grado di entrare in relazione, ma da una comunità più ampia di livello locale, nazionale o ultranazionale fatto di persone che probabilmente non conosceremo mai e con le quali non entreremo mai in un collegamento di interessi diretto.

E’ difficile farlo non è vero? Anche se non lo vogliamo ammettere affrontiamo la complessità dei tempi moderni con atteggiamenti e comportamenti che abbiamo consolidato nel Pleistocene.

E’ per questo che abbiamo bisogno dell’imparzialità. A noi piace pensare che l’imparzialità sia una assicella di legno che ci serve per tirare una linea dritta anche quando ci verrebbe di disegnare un cerchio perché pensiamo, erroneamente, che in quel modo arriveremo prima al punto.

CONCLUSIONI – Così necessaria e così estranea.

“Dio non gioca a dadi … ”   Albert Einstein, Lettera a Niels Bohr (1926)

Adesso possiamo riformulare, in modo più completo, l’affermazione avanzata all’inizio di questo articolo. L’imparzialità garantisce una equidistanza dagli interessi e quindi è giusto che i procedimenti amministrativi e le decisioni che ne scaturiscono abbiano la qualità di essere imparziali, perché quando in un sistema pubblico alcuni interessi prendono il sopravvento, nel medio-lungo periodo si determinano disfunzioni (come la selezione avversa) che possono avere conseguenze catastrofiche sulla qualità dei servizi erogati dal sistema e sulla sua credibilità. L’imparzialità garantisce un equilibrio tra gli interessi in gioco e agisce come fattore stabilizzante dei sistemi pubblici: in assenza di imparzialità, il sistema pubblico finirebbe per implodere sotto la spinta degli interessi particolari.

Tuttavia, l’imparzialità non sembra appartenere alla natura umana: gli Agenti e i Destinatari di una pubblica amministrazione appartengono a una specie (homo sapiens) che si è evoluta all’insegna della parzialità e dell’altruismo. Gli interessi degli Agenti e dei Destinatari interferiscono costantemente con l’imparzialità, determinando fenomeni di conflitto di interessi esogeno e inerente[8]

L’imparzialità non sembra appartenere nemmeno al Principale delegato[9], cioè agli enti (amministrazioni e società) in cui si articola il sistema pubblico. Molto spesso, infatti, l’imparzialità, se intesa come interesse primario, entra in conflitto con altri interessi primari, determinando fenomeni di conflitto di interessi endogeno[10].

Il fascino e il mistero dell’imparzialità derivano da questo: essa è al contempo necessaria ed estranea. Caratterizza il sistema pubblico ma non appartiene alle parti di quel sistema.

Questa estraneità dipende dal fatto che l’imparzialità appartiene al Principali deleganti, cioè ai soggetti collettivi nel cui interesse, in ultima istanza, viene gestito il sistema pubblico: gli Elettori, i Contribuenti, il Mercato, i Soggetti di Diritto[11]. I Principali deleganti non hanno una esistenza concreta e biologica: sono un concetto astratto, un prodotto della cultura umana, come i numeri oppure gli enti geometrici (punto, retta e piano). I concetti astratti, anche se non esistono nella realtà, possono essere molto utili: con i numeri si può contare, con la geometria si può calcolare il volume di un oggetto … con il Principali deleganti si possono istituire sistemi pubblici democratici, fondati sui diritti, che si reggono sul voto dei cittadini, aperti alla partecipazione e che rispondono del loro operato all’opinione pubblica!

I Principali deleganti sono il frutto di un processo storico abbastanza recente: sono emersi, uno dopo l’altro, quando i mammiferi della specie homo sapiens, gli enfants prodiges del Pleistocene, hanno cessato di essere solo dei gruppi ed hanno avuto la capacità di pensarsi come una collettività. E insieme ai Principali deleganti è nata anche l’esigenza dell’imparzialità: poiché il sistema pubblico esiste per promuovere gli interessi di una collettività, tale collettività ha l’aspettativa che il sistema non faccia differenze tra i singoli individui che la compongono.

L’imparzialità è una qualità fondamentale delle pubbliche amministrazioni ed è un principio dell’Agire pubblico. Ma non è l’unico. Se, da un lato, dobbiamo proteggere le amministrazioni pubbliche da un certo aziendalismo perverso, che le vorrebbe equiparare a società di servizi che servono dei clienti; d’altro canto dobbiamo anche diffidare da chi vorrebbe ridurre le pubbliche amministrazioni a meccanismi imparziali, privi di anima e di contatto con la realtà. Un sistema pubblico imparziale al 100% lancerebbe i dadi per scegliere i propri fornitori o per determinare le liste di attesa negli ospedali. Perché ovviamente nulla è più imparziale di una scelta casuale.

Ma noi non vogliamo un sistema pubblico che gioca a dadi. Desideriamo invece avere pubbliche amministrazioni in cui Agenti e Principali delegati agiscono e decidono in modo consapevole, per promuovere l’integrità. E quindi, nel momento esatto in cui chiudiamo una porta, e ci lasciamo alle spalle questo lungo viaggio nel mondo dei conflitti di interessi, ecco che un’altra porta si apre e ci invita a cominciare un nuovo viaggio: un viaggio nella dimensione etica dell’agire pubblico, fatta di dilemmi, valori, autonomia e codici di comportamento.


[2] William Godwin, Enquiry Concerning Political Justice and its Influence on Modern Morals and Manners, G.G.J. and J. Robinson, Londra, 1793.

[3] Montesquieu definì Le avventure di Telemaco “il libro divino di questo secolo” e trasse ispirazione da quest’opera, nella stesura delle sue Lettere Persiane.

[4] Bracanovic T., Utilitarian impartiality and contemporary darwinism, 2007, FILOZOFIA 62

[5] Anche Darwin, in realtà, aveva cercato di fornire una spiegazione dell’altruismo in termini evoluzionistici, ipotizzando una evoluzione dei gruppi, che si sovrappone all’evoluzione degli individui: i gruppi che si adattano meglio sono quelli che al loro interno esprimono un certo grado di altruismo che li mette in posizione di vantaggio rispetto agli altri gruppi.

[6] Il Gene egoista è un saggio scientifico del biologo inglese Richard Dawkins pubblicato nel 1976.

[7] La locuzione “economia del dono” fu usata per la prima volta dall’etnologo francese Marcel Mauss in Essai sur le don (1923-24), uno studio sulla economia di scambio e distribuzione dei doni tra le tribù indiane del Nord America. Dal punto di vista delle dinamiche relazionali, l’accettazione di un regalo, di un benefit o di una utilità, instaura una relazione di scambio, che genera un collegamento di interessi.

[8] Il conflitto di interessi esogeno è il conflitto tra un interesse primario e un interesse secondario della sfera privata di un Agente. Il conflitto di interessi inerente è il conflitto tra l’interesse primario all’imparzialità e l’aspettativa di parzialità di un Destinatario.

[9] Principale delegato, Agente e Destinatario sono ruoli della Teoria dell’Agenzia Estesa, di cui abbiamo parlato diffusamente nei precedenti articoli di questa rubrica. Per un approfondimento di questa teoria, cfr. Massimo Di Rienzo – Andrea Ferrarini, Etica delle relazioni dell’Agente pubblico, Wolters Kluwer (https://shop.wki.it/ebook/ebook-etica-delle-relazioni-dell-agente-pubblico-s720632/)

[10] Il più noto esempio di conflitto di interessi endogeno si determina tra buon andamento e imparzialità: da questo conflitto, endemico in tutte le pubbliche amministrazioni, derivano le difficoltà applicative delle rotazioni (del personale e dei fornitori), che promuovono l’imparzialità, ma minacciano il buon andamento.

[11] Con questa espressione, di derivazione giuridica, ci riferiamo alla collettività di persone cui è riconosciuto un determinato diritto: diritto alla salute, diritto al lavoro, diritto alla libertà di espressione, diritto alla privacy. In un Soggetto di Diritto le persone non sono considerate una ad una, ma sono considerate tutte insieme.