L’inerzia del testimone e altre storie fantastiche sul Whistleblowing
Sul Whistleblowing si è scritto e si è detto molto. Soprattutto negli anni ’90, parallelamente alla adozione dei primi sistemi di protezione da parte di alcuni Paesi, studiosi di tutto il mondo hanno condotto interessanti e complesse ricerche per fornire una base scientifica alle teorie che giustificavano un comportamento tanto cruciale quanto controverso come “soffiare nel fischietto”.
Citiamo alcuni di questi “approcci“, quelli che ci sembrano più interessanti e particolarmente attinenti alla realtà che osserviamo anche in Italia.
L’approccio cosiddetto “idea di potere” (power-perspective approach). Sviluppato da Miceli e Near nella metà degli anni ’90, questo approccio è interessante perché è il primo tentativo di osservare il Whistleblowing come una forma di relazione tra chi segnala e chi (individuo o organizzazione) riceve e gestisce la segnalazione. L’organizzazione “ricevente” può visualizzare il “segnalante” in maniera amichevole o non amichevole a seconda se essa SIA o NON SIA predisposta a utilizzare il cosiddetto “evento di denuncia” come un fattore di crescita e miglioramento.
La prima evenienza (segnalazione ritenuta “amichevole”), ovviamente, è più improbabile quando le organizzazioni beneficiano direttamente degli atti illeciti, oppure quando l’evento di denuncia viene percepito come minaccia all’immagine dell’autorità, nel caso in cui esiste una scarsa cultura della segnalazione che viene scambiata per atto diffamatorio e apertamente combattuta e censurata dalle leadership. In questi casi il rischio di ritorsioni è elevato, l’illecito ha meno probabilità di essere segnalato, soprattutto se compiuto da un membro che riveste un certo status all’interno dell’organizzazione.
In questi casi, inoltre, l’incapacità o la non volontà del “ricevente” di assumere la segnalazione come strumento di crescita induce il segnalante a denunciare l’evento attraverso canali esterni (autorità giudiziaria, media, ecc.), escludendo la potenzialità preventiva dell’istituto. E’ una situazione tipica che abbiamo osservato in molti casi di Whistleblowing italiani, dovuta alla impreparazione del “ricevente” nel gestire la segnalazione o alla sua collusione con il sistema di potere che beneficia direttamente o indirettamente della condotta illecita.
L’approccio cosiddetto “Inerzia del testimone” (By-stander inertia). Questo approccio nasce da uno studio condotto da Latane e Darley (1970) a seguito di un omicidio che fu commesso nel 1964 di cui almeno 38 persone furono testimoni, ma scelsero di non intervenire né di denunciare il fatto. Lo studio ha dato luogo alla teoria che maggiore è il numero di persone che sono testimoni di un fatto (illecito o situazione di pericolo), maggiore è la diffusione della responsabilità e meno probabile sarà la circostanza che qualcuno interverrà.
Le persone che osservano un atto illecito posto in essere da un proprio collega o superiore, come sappiamo, spesso decidono di non agire. Le ragioni sono diverse (cfr. Gestione dei dilemmi etici e whistleblowing).
L’esperimento di Latane e Darley consisteva nel chiedere ai partecipanti (studenti) di essere intervistati sulle loro difficoltà personali. Ogni partecipante era collocato in stanze separate, così che non potevano osservare gli altri e l’intervista si svolgeva tramite un citofono. I partecipanti non sapevano, tuttavia, di essere gli unici “partecipanti”, gli altri erano dei complici.
Nella prima fase dell’esperimento a tutti i partecipanti (veri e falsi) venne data l’istruzione di presentarsi e parlare dei propri problemi. Nella seconda fase ognuno doveva commentare, a turno, su quello che aveva ascoltato.
Improvvisamente ad un complice venne data l’istruzione di simulare un malessere e di accennare ad un attacco epilettico che lo avrebbe portato alla morte. Il “partecipante” non poteva parlargli direttamente al citofono perché non abilitato, né poteva parlare con gli altri complici, gli veniva comunicato solo il numero di persone che erano testimoni dello stesso evento.
I ricercatori volevano capire cosa avrebbe fatto il “partecipante” a seconda della “numerosità” del gruppo in osservazione.
Nei casi in cui al “partecipante” veniva detto che il complice vittima di un malessere era l’unico altro partecipante al gruppo, l’85% reagì (chiese aiuto) nei primi due minuti. Nei casi in cui c’erano 3 partecipanti, la percentuale scese al 62%. Con 5 partecipanti scese ancora al 31%. Anche la velocità di reazione scese. Sembrava che, più grande fosse il gruppo più lentamente le persone reagissero. Nei gruppi con 6 partecipanti non reagì nessuno.
Secondo Latane e Darley non si trattava di indifferenza. I partecipanti effettivamente soffrivano di un reale dilemma etico se ignorare o agire. Secondo i ricercatori si trattava del cosiddetto “effetto testimone” (“by-stander effect”), più testimoni ci sono, meno persone saranno portate ad agire. Questo, secondo i ricercatori, avviene per tre ragioni:
- più grande il gruppo, più grande l’incertezza riguardo alle responsabilità;
- le persone osservano cosa fanno gli altri, se nessuno agisce allora la passività è la regola;
- più grande è il gruppo più le persone si possono sentire giudicate dagli altri se si comportano in un certo modo.
I tre elementi compongono la cosiddetta “by-stander inertia” (o “inerzia del testimone”).
Altri studi hanno poi tentato di mettere in discussione la correlazione tra intervenire in una situazione di emergenza e la decisione di segnalare, contestando la validità del modello (Berkowitz, 1978), ma nonostante questi tentativi, sono emerse congruenze significative tra questo modello ed il modo in cui effettivamente sentiamo e viviamo la responsabilità di segnalare in determinate circostanze, come anche dimostrano le più recenti ricerche di Johnson (2003).
Esistono almeno altri quattro approcci che descrivono i comportamenti umani legati all’atto del segnalare (Whistleblowing):
- L’approccio “giustizia” (Justice approach);
- L’approccio “prosociale” (Prosocial approach);
- Il modello di “processo decisionale etico” (Ethical-decision making models);
- La teoria del “clima etico” (Ethical climate theory).
L’approccio “giustizia” si concentra sulla giustizia e le forme di ingiustizia sui luoghi di lavoro (Graham, 1986; Janet P. Vicino et al., 1993), mentre l’approccio prosociale esplora come il senso del dovere motiva le persone a segnalare (Dozier e Miceli, 1985; Miceli & Vicino, 1985; Miceli & Vicino, 1988; Miceli & Vicino, 1992; Janet P. Vicino e Miceli, 1986, 1996). Il modello di “processo decisionale etico” è interessante perché si ritiene che la decisione di segnalare o rimanere in silenzio è paragonabile ad altri processi decisionali che vengono attivati all’interno di un’organizzazione (TM Jones & Ryan, 1998; Logsdon & Yuthas, 1997 Riposo, Narvaez, Bebeau, e Thoma, 1999), pertanto “segnalare” è un processo che si apprende come si apprendono altre tipologie di comportamento. La teoria del “clima etico” è una componente della cultura etica di un’organizzazione e spiega come gli individui si attivano per determinare quali problemi sono legati all’etica, e come affrontano e risolvono i vari dilemmi etici con i quali hanno a che fare nel contesto professionale (Cullen, Praveen Parboteeah, e Victor 2003, Cullen, Victor, e Stephens, 1989).