I Manager dell’Integrità
A volte è importante anche come chiami le cose.
E se trasformassimo i Responsabili per la Prevenzione della Corruzione in “Manager dell’Integrità“? No, non si tratta soltanto di fare il gioco delle tre carte con i nomi e introdurre qualche accattivante parolina inglese.
In realtà appare sempre più chiaro come i Responsabili per la Prevenzione della Corruzione (RPC) possano operare pienamente solo in determinate circostanze che dipendono dal loro particolare processo di individuazione e nomina che, guarda caso, assegna all’organo di indirizzo politico la titolarità della scelta.
Per questo, amministrazioni “eticamente orientate”, cioè dove la componente politica e/o quella amministrativa non è collusa, producono RPC in grado di esplicare al massimo la loro funzione che, in quei contesti, è di apporre confini organizzativi ed etici per prevenire atti corruttivi (o quella che io spesso, quando faccio formazione, chiamo “la predazione” e che può arrivare in qualsiasi momento).
Contrariamente, amministrazioni “eticamente disorientate”, cioè dove la componente politica e/o amministrativa è collusa o parzialmente collusa con interessi illeciti, producono RPC che, nel migliore dei casi, risultano irrilevanti, mentre nel peggiore dei casi sono asserviti agli schemi comportamentali delle leadership che li hanno nominato. Il caso di Mafia Capitale è esemplare.
Per questo, stante l’attuale legislazione, una vera e proficua politica di prevenzione della corruzione e di promozione dell’integrità si può avere solo nel primo caso, solo, cioè, in presenza di amministrazioni “eticamente orientate”.
Non cadiamo peraltro nella tentazione di affermare che così gli RPC non servono a niente, anzi. La loro funzione di “argine” al malaffare è di enorme rilevanza. Mettere in piedi un sistema di prevenzione sia di tipo organizzativo/procedurale con la gestione del rischio, che di tipo formativo/informativo su questioni che riguardano l’etica delle scelte pubbliche o il conflitto di interessi, in qualche modo, potrebbe avere l’effetto di sganciare l’amministrazione dalla (a volte) pericolosa dipendenza con gli interessi esterni che non sempre sono limpidi e volti al bene comune.
Per questo, più che essere dei Manager dell’anticorruzione, ritengo si debba più correttamente pensare ad essi come a dei “Gestori dell’integrità“.
Peraltro, la Gestione dell’Integrità (Integrity Management) è un settore emergente della consulenza organizzativa sia privata che pubblica in molti Paesi a democrazia avanzata.
L’efficacia maggiore che si può avere da una corretta Gestione dell’Integrità si raggiunge quando l’integrità, da una serie di attività poste in essere per adempiere ad un impianto normativo o da opzione etica affidata all’interpretazione del singolo o di un gruppo, diventa, magicamente, uno stile organizzativo. E questo è proprio il compito del RPC, così come lo intendo io, accompagnare le amministrazioni ad acquisire uno stile organizzativo volto all’integrità.
La ragione per cui le PA dovrebbero investire in Gestione dell’Integrità fino a farlo diventare uno stile organizzativo è che l’integrità è una chiave di volta del buon governo, condizione affinché l’azione della PA sia non solo legittimata, ma anche efficace. Inoltre, la Gestione dell’Integrità punta alla cosiddetta “giustizia organizzativa percepita“, cioè al fatto che una organizzazione non sia soltanto “giusta” ma sia anche percepita, all’interno e all’esterno, come tale. Questo elemento è condizione indispensabile per qualsiasi iniziativa volta al rafforzamento, ad esempio, del “benessere organizzativo“.
Tecnicamente parlando, la Gestione dell’Integrità si riferisce alle attività intraprese per stimolare e far rispettare l’integrità e prevenire le violazioni delle regole all’interno di una particolare organizzazione. La pianificazione della gestione dell’integrità (Piano) si riferisce, quindi, alla messa in campo di un insieme di strumenti (le “misure“), tenendo conto della loro interdipendenza, nonché dei processi e delle strutture che favoriscono l’adozione di tali strumenti. Non solo il risk management, quindi, ma anche la formazione valoriale, il whistleblowing e tanto altro.
Questo significa, più o meno, che, ad esempio, la prevenzione della corruzione, da mera applicazione della legge 190/2012 e dalla pedissequa formulazione del Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione, diventa, magicamente, l’occasione per ripensare un nuovo assetto organizzativo, per applicare nuove modalità di selezione e valutazione della dirigenza, per una discussione aperta dei dilemmi etici per sviluppare capacità decisionale etica, per una reale partecipazione alla scrittura delle regole, ecc.
Ad esempio, la AUSL di Modena, in netta controtendenza con il resto delle amministrazioni italiane, ha adottato un “Piano Triennale per l’Integrità” in luogo del Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione.
A volte è importante anche come chiami le cose.